21 marzo 2022

La Morte di Adone del Domenichino torna a splendere a Palazzo Farnese

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L'affresco di inizio '600 torna a splendere nella sede dell'Ambasciata francese a Roma, dopo un lungo lavoro di restauro che è riuscito a riportarlo agli antichi splendori

Il corpo di Adone, bellissimo ma ferito a morte dal cinghiale e ora steso a terra senza vita, sorvegliato dall’amato cane, che ne custodisce le membra ormai vinte.  Accanto a lui la Venere, che corre con le braccia alzate al cielo, travolta dalla disperazione di fronte all’amore perduto. Più di lato, un cocchio dorato tirato da due cigni e guidato da Cupido. È questo lo scenario suggestivo racchiuso nell’affresco “La morte di Adone” del Domenichino, datato tra il 1603 e il 1604, che ritorna agli antichi splendori dopo due anni di soggiorno nei laboratori dell’Istituto centrale per il Restauro, d’intesa con la Soprintendenza guidata da Daniela Porro, nella sua storica Sala delle Firme a Palazzo Farnese, sede dell’Ambasciata di Francia.

Un’opera che l’artista ha realizzato, agli albori del ‘600, in appena sei giornate lavorative, una delle novità più suggestive emerse dal complesso restauro dello straordinario affresco. L’affresco è parte di un ciclo di tre opere murarie realizzate dall’artista nel cosiddetto Casino della Morte, un piccolo edificio fatto costruire dal cardinale Odoardo Farnese quale dépendance intima e raccolta del grandioso palazzo di famiglia. Situato sulla sponda del Tevere e così denominato per via della contiguità con la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, il Casino si apriva al pianterreno su un rigoglioso giardino prospiciente il fiume ed era accessibile direttamente dal palazzo principale attraverso l’arco che scavalca ancora oggi via Giulia.

L’edificio venne decorato dall’équipe di artisti diretta da Annibale Carracci, già impegnata nella realizzazione di numerose imprese decorative per la famiglia Farnese, prima fra tutte la celebre galleria del palazzo. Attraverso Annibale, il giovane Domenichino ricevette l’incarico di realizzare i tre affreschi che impreziosivano le volte delle due sale del piano terreno nonché della loggia che si apriva sul giardino. Proprio in quest’ultima era collocato “Morte di Adone”, dove è rimasto, insieme agli altri del ciclo, fino al 1817, quando, su iniziativa del marchese Fuscaldo, plenipotenziario del Re delle Due Sicilie, erede delle proprietà Farnese, vennero distaccati, anche per via del cattivo stato di conservazione, e trasferiti a Palazzo Farnese, in una sala adiacente alla Galleria dei Carracci.

Artefice dello stacco fu uno dei più importanti restauratori europei del primo Ottocento, Pietro Palmaroli, già autore, pochi anni prima, del riuscito distacco della “Deposizione dalla croce” di Daniele da Volterra a Trinità dei Monti. Palmaroli aveva elaborato una variante metodologica rispetto alle tecniche, allora praticate, dello stacco a massello o dello strappo: essa gli consentiva di distaccare gli affreschi conservando un sottile strato dell’intonaco originale, mantenendo così al dipinto, seppure montato sulla tela, le caratteristiche materiche proprie dell’affresco, come le incisioni e le giunzioni delle “giornate”.

E oggi che tutti e tre gli affreschi tornano alla luce, sono conservati riuniti nella Sala delle Firme nell’appartamento dell’Ambasciatore.

I soggetti dei tre dipinti, tratti dai miti classici e narrati da Ovidio nelle Metamorfosi, sono Narciso alla fonte, Apollo e Giacinto e appunto La morte di Adone, ovvero tre tragiche storie in cui la morte del protagonista è causa della nascita di un fiore, palese richiamo ai gigli dell’emblema araldico dei Farnese nonché soggetto ideale per un edificio da giardino, dove venivano coltivate proprio le specie floreali la cui origine è rappresentata nei dipinti.

 

 

Il restauro è stato interamente finanziato, progettato ed eseguito dall’Istituto Centrale per il Restauro, d’intesa con la Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. E segue quello del 2018 sul Narciso alla Fonte. La Morte di Adone, rispetto agli altri due dipinti murali del ciclo, conserva ancora il supporto realizzato da Palmaroli, con un robusto telaio in legno di castagno e tele in fibra naturale: valutato il buono stato di conservazione, esso è stato mantenuto per il suo valore di testimonianza storica.

L’affresco, all’arrivo in santa Marta, mostrava alcune deformazioni permanenti, gravemente fratturate e, in corrispondenza di queste zone, oggetto di precedenti interventi di restauro, i ritocchi erano spessi, alterati e debordanti sulla pellicola pittorica originale. Un ampio rifacimento a tempera interessava la zona della quinta arborea centrale e parte della figura di Venere (il braccio sinistro, una porzione del capo), rifacimento dovuto a una lacuna forse antecedente all’operazione di stacco e ascrivibile a una fase pittorica ottocentesca. L’intera superficie dipinta era offuscata da estese ridipinture e fissativi imbruniti che la ottundevano.

Ma ora, grazie al restauro, si è riusciti a recuperare l’originaria cromia del dipinto murale, ristabilendone i corretti valori tonali attraverso metodiche selettive di pulitura. E il corpo di Adone, sia pure morente, è tornato a splendere e continuerà a farlo, nei secoli a venire.

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