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La Strega di Salvator Rosa entra nella collezione degli Uffizi: storia di un quadro eretico
Arte antica
di redazione
Un grande capolavoro della storia dell’arte torna in Italia, con il suo carico di mistero e fascino: le Gallerie degli Uffizi di Firenze hanno infatti acquisito, per 450mila euro, La Strega, un imponente olio su tela di Salvator Rosa, maestro visionario e ribelle del Barocco. L’opera, realizzata tra il 1647 e il 1650, rischiava di perdersi nei circuiti internazionali e invece sarà accolta nella collezione permanente del museo, allestita nelle sale dei maestri del XVII Secolo. Intanto, sarà possibile ammirarla nella Sala Bianca di Palazzo Pitti.
«Il prezioso ingresso in collezione della Strega di Salvator Rosa ci permette di accrescere qualitativamente il nucleo collezionistico della pittura seicentesca del museo con un autore che, napoletano di nascita e formazione, si muove tra Roma e Firenze caratterizzando in modo originalissimo l’arte italiana ed europea della metà del secolo», ha dichiarato Simone Verde, direttore delle Gallerie degli Uffizi, museo che già può annoverare un cospicuo numero di dipinti di Rosa.
Si tratta in particolare di paesaggi e scene di genere, con l’eccezione delle Tentazioni di Sant’Antonio, opera che fa parte del filone magico e stregonesco per il quale l’artista era particolarmente apprezzato e che fu da lui sviluppato proprio durante la sua residenza a Firenze. «Adesso, grazie all’arrivo della Strega, possiamo dire di aver colmato in modo più che soddisfacente tale lacuna. Con questo capolavoro, un autentico manifesto teorico della pittura barocca, gli Uffizi si dotano dunque di un’altra potente icona, restituendo all’Italia un capolavoro altrimenti destinato all’esilio», ha continuato Verde.
La Strega è un’opera dai toni perturbanti, che restituisce al pubblico contemporaneo l’anima più inquieta del Seicento italiano. Al centro del dipinto, una figura femminile inginocchiata incarna l’archetipo della strega: un corpo deformato, segnato dal tempo, sospeso tra tratti femminili e androgini. Lo sguardo furioso e la gestualità esasperata si fissano su uno scenario carico di simboli esoterici: un ramo in fiamme, un contenitore sferico da cui emerge una creatura demoniaca, ossa sparse, un teschio e un foglio bianco con simboli occulti firmato con l’inconfondibile monogramma “SR”.
E poi, un dettaglio agghiacciante si cela nell’ombra: un bambino morto, avvolto in un panno, rimando sinistro alle leggende sulle streghe e sull’uso del sangue infantile nei rituali magici.
Salvator Rosa, nato a Napoli nel 1615, è tra le figure più irregolari e affascinanti del Seicento. Artista dal temperamento impetuoso, pittore, poeta e filosofo, si mosse tra Napoli, Roma e Firenze, lasciando un segno profondo nella cultura artistica europea. I suoi paesaggi selvaggi e le scene visionarie influenzarono i pittori del sublime nei secoli successivi. La sua vita, segnata da conflitti e scelte anticonformiste, alimentò la leggenda dell’artista maledetto, che preferiva seguire l’impeto dell’ispirazione piuttosto che i dettami dei committenti.
Questo dipinto si inserisce nel fertile periodo fiorentino di Rosa, compreso tra il 1640 e il 1648, durante il quale, al servizio del cardinale Giovan Carlo de’ Medici, l’artista entrò in contatto con l’ambiente intellettuale delle accademie e degli eruditi attratti da temi esoterici e filosofici. Un contesto che alimenta la sua produzione negromantica, come testimoniano opere coeve quali le Streghe e incantesimi della National Gallery di Londra e la Strega dei Musei Capitolini. Rosa sviluppa una pittura densa e carica di dettagli grotteschi, attingendo alla tradizione nordica di Dürer, Baldung Grien e Jacques de Gheyn. L’opera si trovava all’estero da un numero sufficiente di anni tale da non poter più essere vincolata e, oggetto di interesse da parte di svariati musei internazionali, rischiava di non rientrare mai più in Italia. L’acquisto da parte degli Uffizi è stato avallato dal comitato scientifico.
Interessante è il legame tra pittura e letteratura nell’opera di Rosa, che nel 1646 compose l’ode La Strega, un testo intriso degli stessi temi di maledizione e vendetta amorosa che emergono nel dipinto acquisito dagli Uffizi. Riportiamo i primi versi: «Era la notte, e l’orme / a le prede d’amor quieta movea / turba di Citherea, / turba che mai non dorme, / perché nell’aria bruna / scintillar non vedea / sotto povero ciel luce di luna».