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Le immagini ci usano. A Palazzo Barberini
Arte antica
Le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma non demordono e inaugurano, nella sede di Palazzo Barberini, una nuova mostra dal titolo “L’Ora dello Spettatore. Come le immagini ci usano“, a cura di Michele di Monte. Il percorso espositivo, presentato a porte chiuse alla stampa e per ora fruibile dal pubblico unicamente sul sito del museo tramite un video-tour e alcuni contenuti di approfondimento, comprende 25 capolavori pittorici dal Cinquecento al Settecento attraverso i quali viene esplorato il tema del rapporto tra immagine dipinta e spettatore. Le opere provengono dalle collezioni delle Gallerie e da importanti prestatori italiani ed europei, evidenziando così “la politica di scambio con altri musei, volta a rafforzare il ruolo chiave svolto dalle Gallerie a livello nazionale ed internazionale”, come spiega la direttrice Flaminia Gennari Santori.
I grandi maestri ci vengono riproposti lungo cinque macro-sezioni che ci guidano al dialogo graduale con ciascuno di essi, in un crescendo di coinvolgimento e consapevolezza come spettatori. Intrusi, complici, critici, voyeur. Il nostro viaggio inizia con Il Mondo Novo (1765) di Giandomenico Tiepolo, dove una folla di personaggi ci dà le spalle e ci esclude da ciò che sta accadendo al centro del quadro. Ma subito si apre una finestra, figurativa e figurata, che diventa il nostro spazio di transizione verso l’interno della scena pittorica: la Ragazza in una cornice (1641) di Rembrandt si sporge dal bordo della sua tela per guardarci, si è accorta di noi.
Iniziamo a renderci conto che, forse, non siamo solo spettatori esterni, ma possiamo essere partecipi di ciò che avviene nel mondo al di là. Ecco allora che la Venere del Guercino (Venere, Marte e Amore, 1633) sceglie di avere una relazione privilegiata con noi, chiedendo a Cupido di volgere il suo dardo verso il nostro petto e provocando nel contempo lo sdegno di Marte, che si affaccia indignato dal fondo della tela. Subiamo inevitabilmente il fascino di questa chiamata, ma subito rischiamo di essere di troppo: la nostra presenza non è forse inopportuna quando la Maddalena del Savoldo (1535-1540) riceve l’apparizione di Cristo Risorto, la cui luce divina – unica traccia della sua presenza nel quadro – proviene proprio dal nostro punto di osservazione?
Forse potremmo ritenerci eletti, ma certo non possiamo sottrarci dal ritrovarci complici nel momento in cui l’angelica quanto paradossale Salomè di Guido Reni (1638-39) ci offre la testa del Battista su un piatto d’argento. E cosa proviamo ad essere catapultati dentro la tenda in cui Giuditta sta decapitando Oloferne (Johan Liss, Giuditta e Oloferne, 1622)? Il nostro viaggio metaforico, che inizialmente La Passione di Hans Memling ci aveva prefigurato, si conclude con un climax erotico nell’ultima sala, dove ci scopriamo tutti accomunati dalla stessa pulsione erotica mentre inevitabilmente spiamo l’intimità di Venere e Marte (Lavinia Fontana, 1650). Non solo, la dea si volta a guardarci, quasi volesse invitarci a partecipare.
Capiamo infine che la nostra “ora” è il momento in cui ci accorgiamo di essere spettatori ed è proprio grazie alla nostra presenza che le opere diventano attuali. Come le immagini ci usano? Servendosi di noi per parlarci di noi. Una mostra importante, avvincente, dove i diversi piani di lettura accompagnano lo spettatore in un percorso che riesce a coinvolgere sia emotivamente che da un punto di vista didattico. La centralità del visitatore non può che apparire emblematica anche per la sua ovvia assenza in questo momento, ma altrettanto esplicita (e forse provocatoria) nel ricordare che è il pubblico a rendere visibile l’arte, poiché “solo in questo sguardo i dipinti diventano immagini”. Una mostra che ci chiama, da tenere presente in attesa di tornare a varcare quella soglia che nelle opere è rappresentata dal limite fisico tra noi e ciò che avviene al loro interno, ma nella realtà è ancora la porta stessa del museo.