Ecco un bilancio storico-artistico di una delle mostre più riuscite di questo 2022. I Musei di San Domenico di Forlì hanno ospitato “Maddalena. Il mistero e l’immagine”, curata da Cristina Acidini, Fernando Mazzocca e Paola Refice. Si è trattato di un lungo viaggio, snodato tra oltre 200 opere, nella storia e nell’iconografia di uno dei personaggi più raffigurati, venerati, discussi e ugualmente misteriosi degli ultimi duemila anni.
Di Maria di Magdala è stato scritto nei vangeli canonici (redatti negli ultimi decenni del primo secolo): fu guarita da Gesù, che la liberò da sette demoni (lo raccontano Marco e Luca), per poi essere sua discepola fino all’ultimo viaggio sul Golgota; fu la prima persona ad accorgersi del sepolcro vuoto e, soprattutto, la prima cui Gesù apparve e parlò dopo la resurrezione. Una figura che riveste quindi un ruolo fondamentale all’interno del Cristianesimo. Successivamente però la storia si distaccò dalle fonti e assunse i contorni confusi della leggenda, generata dalla sovrapposizione di più personaggi, tra cui Maria Egiziaca: confusione probabilmente favorita della Chiesa, che aveva bisogno di mostrare ai fedeli il virtuoso esempio di una peccatrice convertita e divenuta santa.
La mostra di Forlì ha portato alla ribalta un soggetto che è affascinante per tantissime ragioni, e lo ha fatto attraverso un progetto scientifico di valore assoluto supportato da un numero considerevole di capolavori dal XIII secolo ai giorni nostri, con sezioni di oggetti ancora più antichi (come il Cratere apulo con morte di Meleagro del III secolo a.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli) per mettere in luce le connessioni con l’arte classica, inerenti soprattutto la rappresentazione del dolore, di cui la Maddalena è interprete principale proprio per la sua presenza ai piedi della croce. La traslazione semantica di un tema dall’arte antica a quella moderna è un elemento consueto: in questo caso il compianto sul corpo di Meleagro ha offerto agli artisti dei secoli successivi un’ottima ispirazione per i volti afflitti dei partecipanti alla scena della Crocifissione.
La mostra ha fornito diverse possibilità di lettura, in primis quella più scontata, ma sempre interessante, l’osservazione dell’evoluzione degli stili e delle tecniche artistiche nel corso dei secoli. Tuttavia, quella più rilevante è stata ripercorrere, tramite la Maddalena, protagonista femminile, il ruolo della donna sia in rapporto al tema del sacro sia, più in generale, in rapporto alle società in cui nascevano le opere d’arte.
Al di là degli attributi iconografici che rimangono codificati dal Medioevo in poi e che si alternano a seconda della vicenda biografica raffigurata – il vasetto per gli unguenti, i lunghi capelli che le ricoprono il corpo nella versione eremitica, il teschio e il crocifisso – quello che cambia spesso è il significato attribuito alla figura femminile. Le immagini risalenti al XIII secolo, raffigurano la Maddalena generalmente in maniera statica con il vasetto oppure in ginocchio ai piedi della croce, elemento questo che si lega molto alla diffusione del francescanesimo. Nel Trecento, Giotto invece iniziò a sviluppare temi diversi, come il Noli me tangere, dedicando alla Maddalena una cappella all’interno della Basilica di Assisi e forgiando un’iconografia autonoma che riscosse notevole successo.
Come si è potuto evincere lungo tutto il percorso espositivo, che si apriva nel magnifico scenario dell’ex chiesa di San Domenico, il tema della Maddalena si è sviluppato su più di un binario: dolore, amore, penitenza, spiritualità e, anche, sensualità. Il Quattrocento ad esempio è stato qui rappresentato, tra i tanti capolavori, dalla Crocifissione di Masaccio, dove è la gestualità, più che l’espressione che non si vede ma che si intuisce perfettamente, a dare la cifra del dolore. D’altro canto però, lo sviluppo della cultura cortese pone la Santa in un ruolo che, sempre in quel secolo, la vede vestire i panni della cortigiana. Se si guardano l’incredibile Polittico di Montefiore di Carlo Crivelli, databile agli anni ‘70, e la tavola di Luca Signorelli, datata 1504, la Maddalena ha le sembianze e l’abbigliamento di una principessa dell’epoca.
Nel Cinquecento prevale l’iconografia del Noli me tangere e della mirofora, ma la Maddalena si è ormai arricchita di una propria bellezza che non verrà a mancare neanche quando la scena è legata al dolore, come nella Crocifissione di Federico Barocci dove, a differenza della tavola di Masaccio, la Santa è dipinta in una serena contemplazione, con una lunga capigliatura bionda elegantemente acconciata. Tra i moltissimi quadri del Cinquecento presenti in mostra spiccava La Maddalena al sepolcro di Savoldo che mischia sapientemente gli effetti atmosferici dei pittori veneti con la tradizione lombarda del chiaroscuro ottenendo una Maddalena avvolta da una luce magica: esemplare della solitudine meditativa raffigurata in quegli anni.
Un nuovo filone nasce nel Seicento, scaturito dal misticismo carmelitano e, in particolare, dagli scritti di santa Teresa d’Avila, legati all’estasi mistica. L’iconografia della Maddalena prende quindi una direzione che, come spesso avviene nell’arte, esalta la spiritualità ma sconfina nella sensualità: uno dei casi più emblematici è la tela di Guido Cagnacci conservata a Palazzo Barberini, quasi un pendant pittorico della celebre scultura di Bernini, raffigurante la mistica spagnola.
E ancora, nei secoli successivi la Maddalena diventerà un simbolo di protesta, di denuncia, d’incarnazione delle terribili tragedie: l’importanza di questa mostra è consistita nell’aver ricostruito perfettamente la storia artistica di un personaggio che è diventato un simbolo, tanto silenzioso quanto presente, declinato infinite volte e posto su vessilli di diverse battaglie ma sempre, ineluttabilmente, legato al dualismo amore-dolore.
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