Nelle opere di Vermeer si respira ancora la verità o, almeno, qualcosa di molto vicino. Non solo la realtà, il verismo di una situazione caratterizzata, ma la particolare sensazione, sfuggente tra le cose colpite dalla luce o velate dalla penombra, di energie sotterranee e perennemente in corso, pulsanti ancora oggi e probabilmente per sempre con la stessa intensità, in strettissima relazione, anzi, in continuità con tutto ciò che è al di fuori della superficie della rappresentazione. La Stradina di Delft fu realizzata tra il 1657 e il 1658 e, anche oggi, è “veramente” la stradina di Delft. Ma quella perla? Secondo alcuni studi effettuati in occasione dell’ultima, imperdibile mostra dedicata a Vermeer, appena aperta al Rijksmuseum di Amsterdam, l’orecchino sfoggiato in quella che, probabilmente, è l’opera più conosciuta del Maestro fiammingo, sarebbe una pallina di vetro a forma di goccia o di lacrima, non una vera perla.
Il titolo originale del dipinto, che è risalente al 1665-1666 ed è conservato al Mauritshuis di L’Aia, sarebbe “Un ritratto in stile turco”, in riferimento alla pittura di genere “tronien”, in cui i soggetti erano atteggiati in costumi storici o esotici. Quindi si è passati a “Ragazza con il turbante” ed è solo in anni recenti che è stato proposto il cambio con “Ragazza con orecchino di perla”. La decisione fu presa del curatore del Mauritshuis Quentin Buvelot per l’ultima retrospettiva di Vermeer, tenutasi alla National Gallery of Art di Washington e al Mauritshuis tra il 1995 e il 1996. Poi, nel 1999, fu pubblicato il best seller di Tracy Chevalier, “La ragazza con l’orecchino di perla”, al quale, nel 2003, seguì l’omonimo film di Peter Webber, con Colin Firth nel ruolo di Johannes Vermeer e Scarlett Johansson nelle vesti – e negli accessori – della modella Griet.
In realtà, il nome della modella non si conosce, si è ipotizzato che la ragazza ritratta potesse essere la figlia maggiore di Vermeer, Maria, nata intorno al 1655 e che, dunque, all’epoca della realizzazione dell’opera, avrebbe avuto solo una decina d’anni. La verità non si conosce, almeno fino in fondo ma stiamo parlando esattamente di questo confine sottile. Di fatto, nel pensiero collettivo l’opera è diventata “La ragazza con l’orecchino di perla” che in effetti suona più misterioso. E infatti agli storici dell’arte già non convinceva quell’orecchino fin troppo pretenzioso, per una donna abbigliata comunque in vesti decisamente non sfarzose.
Nel catalogo della mostra al Rijksmuseum, che riunisce ben 28 opere di Vermeer – su un totale di circa 35 dipinti finora scoperti o attribuiti – con prestiti da tutto il mondo, il co-curatore Pieter Roelofs sottolinea che una perla di quelle dimensioni sarebbe stata astronomicamente costosa. Nel XVII secolo, le perle provenivano principalmente dallo stretto tra l’India e l’attuale Sri Lanka. Nel 1632, un gioielliere olandese pagò circa 500 sterline, l’equivalente oggi di 100mila sterline, per una grande perla acquistata a Londra per una principessa e che era molto più piccola rispetto a quella ritratta da Vermeer. Secondo Roelofs, «Nell’opera di Vermeer si tratta di imitazioni di perle di vetro, che ai suoi tempi venivano vendute principalmente dai soffiatori di vetro veneziani».
Sempre riferendoci al valore economico – uno dei parametri per definire cioè che vero e ciò che non lo è – il dipinto fu ritrovato nel 1881, quando fu messo all’asta all’Aia dal tal signor Braams e acquistato dal collezionista Arnoldus des Tombe per 2 fiorini più 30 centesimi di commissione, poco più di 1 euro. Fu lo stesso des Tombe a donarlo al Mauritshuis, nel 1903, con un lascito testamentario. Oggi l’opera è talmente importante, considerata uno dei capolavori assoluti della storia dell’arte, che dovrà tornare in anticipo, agli inizi di aprile, al gelosissimo Mauritshuis – che pure l’ha prestata in diverse occasioni, per esempio nel 2014, a Bologna –, ben prima quindi della fine della mostra al Rijksmuseum, che chiuderà il 4 giugno.
Che si tratti di una perla vera o di una imitazione di vetro, l’unica cosa che sembrerebbe essere certa è che a Vermeer, per fissarla per sempre sulla tela, bastarono due pennellate applicate rapidamente.
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