18 artisti e 8 curatori per i venticinque anni del Kunst Merano

di - 27 Agosto 2021

Cos’è l’arte e come si confronta con la società? Apre una riflessione l’associazione Kunst Meran Merano Arte, 500 metri quadrati di superficie espositiva, distribuita su tre piani in occasione di un doppio anniversario: 25 anni della sua fondazione e 20 anni di attività nell’attuale sede sotto i portici di Merano, dove l’arte diventa parametro di conoscenza e investigazione della contemporaneità.
Fino al 24 ottobre, otto curatori (Valerio Dehò, Luigi Fassi, Sabine Gamper, Gunther Oberhollenzer, Andreas Kofler, Magdalene Schmidt, Anne Schloen, Suzanne Waiz) che avevano già collaborato con la Kunsthaus altoatesina, hanno selezionato le opere di 18 artisti scelti per investigare le contraddizioni del nostro confuso presente.
La mostra corale “ARTE È. 25 Jahre Kunst Meran | 25 anni di Merano Arte” ideata da Ursula Schnitzer in collaborazione con Martina Oberprantacher prende forma partendo dall’affermazione del filosofo Vilem Flusser: “Le opere d’arte sono suggerimenti per esperienze future”. È una frase inserita in un dialogo più ampio sul rapporto tra bellezza e kitsch. I coniugi Flusser si sono trasferiti a Merano nel 1972, dove hanno vissuto per tre anni in un appartamento in periferia, con panoramica mozzafiato sulla catena montuosa del Gruppo Tessa.

Claudia Barcheri, Lamina, Gips, Farbe, Maße variabel, 2021, Foto: Leonie Felle

Quale arte è possibile nell’ambito della transizione ambientale e digitale, della parità di genere, della migrazione, dell’ingiustizia sociale e del disastro ambientale, climatico e territoriale? Questi e altri sono i temi nodali di una mostra-caleidoscopio che presenta suggerimenti, riflessioni per esperienze future sul valore e impegno sociale dell’arte poliedrica e multiforme; Quale arte è possibile nell’ambito della transizione ambientale e digitale, della parità di genere, della migrazione, dell’ingiustizia sociale e del disastro ambientale, climatico e territoriale? Questi e altri sono i temi nodali di una mostra-caleidoscopio che presenta suggerimenti, riflessioni per esperienze future sul valore e impegno sociale dell’arte poliedrica e multiformecome lo si capisce vedendo la mostra.
Nel percorso espositivo, tra un’opera e l’altra, molte presentano tematiche post-pandemiche, il culmine è dall’ultimo piano, nella sezione a cura Sabine Gamper, dove Claudia Barcheri (1985) stupisce con oggetti lamellari in gesso vagamente organici, simili ai funghi o animali corallini, apparentemente fragili, ma resilienti. Barbara Gamper (1981) “graffia” concettualmente con oggetti e perfomance che affrontano il concetto di “appropriazione”, aprendo domande su dinamiche complesse del ruolo dell’arte nella società. Maria CM Hilber (1984), mostra con un ritratto filmico di una ballerina e attivista del movimento DisAbility, mettendo in discussione il concetto di persone ritenute più deboli. Marie Walcher denuncia la sottovalutazione sociale e l’invisibilità di lavori “umili” e invisibili di cura attraverso il mestiere del lustrascarpe. Letizia Werth (1974), si focalizza sulle contraddizioni della società dei consumi nell’epoca globale. Selene Magnolia (1989) presenta una documentazione fotografica di un salvataggio di un gruppo di donne nigeriane nel Mediterraneo, diventato il “cimitero” della speranza per migranti in cerca di un futuro migliore. Questa sezione è strettamente collegata a quella a cura di Luigi Fassi, dove una carrellata di intensi ritratti pittorici espressionisti di uomini e donne, migranti dal volto contratto in mezzo al mare in balia delle onde e della sopravvivenza di Ludovic Nkoth (1994), nato e cresciuto in Camerun e trasferito a New York, ci interrogano sulle paure globali e pregiudizi razziali che covano in ognuno di noi occidentali.

Ludovic Nkoth, Passenger #2, 2020, Acrylic and sand on Belgium linen, 152.4 x 121.9 cm, Courtesy of the artist and Luce Gallery, Turin, Photograph PEPE fotografia

Continua lo sguardo critico e antropologico della curatrice Suzanne Waiz e Ludwing Thalheim (1968) con una documentazione sugli alloggi improvvisati e mimetizzati degli “invisibili”, dei senzatetto o persone che hanno perso il lavoro e quindi ruolo nella società a partire dall’esempio di Vienna; città europea specchio dove la speculazione immobiliare convive mancati progetti di urbanistica sociale e culturale condizionata dal capitale e interessi personali, che non mettono al centro il benessere del cittadino.
Andreas Kofler e Magdalene Schmidt, affrontano l’aspetto architettonico e approfondiscono il ruolo della cultura architettonica altoatesina contemporanea, a partire da un confronto con la ex fondatrice e ex direttrice di Merano Arte, Herta Wolf Torggler, con uno sguardo trasversale in cui tradizione e innovazione coesistono con il contributo di “Turris Babel”, la rivista della Fondazione Architettura Alto Adige.

Zora Kreuzer, The Sun Is Shining Tonight, 2020, B-Part Exhibition Berlin, Foto Andreas Schimanski

Si fa notare nella prima sezione di Anne Schloen, che apre il percorso espositivo, l’intervento site-specific luminoso di Zora Kreuzer (1986) che altera la percezione dello spazio, incastonata nella sezione centrale della Kunsthaus meranese. L’alterazione percettiva sensoriale viene indagato anche da Erika Hock (1981), che sorprende con una installazione di oggetti da toccare oltre che da guardare in bilico tra arte e design.
La cultura e linguaggi digitali del XXI secolo è il tema della sezione a cura di Gunter Oberhollenzer, dove analogico e digitale coesistono e aprono nuovi scenari percettivi e il concetto di autorialità dell’opera. Sono un esempio le opere di Rosmarie Lukasser (1981), Christian Bazant Hegemark (1978) e Olivar Laric (1981), con una riproduzione di una famosa scultura attraverso l’uso di stampa 3D, Bernd Oppl (1980) mostra modelli architettonici e opere video che provocano la nostra percezione. Invitano lo spettatore a interagire le opere di Hannes Egger (1981), anche Roberta Lima (1974) presenta una installazione performativa interattiva Wood Wide Wed.

Quayola, Jardins d’été, 2016, Video 4K, 1’32

È immersiva e ipnotica l’opera ambientale ammantata dall’oscurità di Davide Quayola (1982), artista-biologo proposto da Valeri Dehò nella sua sezione “futuro infinito”, dove artificiale e naturale, l’uomo e la macchina si scambiano codici e il micro e macrocosmo si compenetrano in maniera armonica, perché l’arte si fa con tutto , la tensione estetica è una attitudine dello spirito dell’uomo capace di immaginare, riconfigurare il mondo nel suo titanico anelito verso l’assoluto.

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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