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20 anni che lasciano il sogno: intervista al gallerista torinese Pietro Gagliardi
Arte contemporanea
In occasione dei 20 anni della galleria Gagliardi e Domke di Torino, ho intervistato Pietro Gagliardi. Gallerista sui generis, anche per la sua formazione e il passato brillantissimo come pubblicitario, Gagliardi è un personaggio particolare che, da buon torinese (anche se in realtà è nativo di Alessandria), sotto l’apparenza schiva nasconde un temperamento coraggioso e attratto dalle innovazioni in ogni campo. La ricerca artistica della galleria, ospitata in uno spazio tanto ampio quanto elegante, anzi quasi degno di una fondazione, risalta per il carattere originale, mai compiacente e sempre ispirata a una personalissima visione. Qui il nostro scambio di battute, condito qua e là da qualche intrigante aneddoto artistico.
Come sono stati questi tuoi primi 20 anni da gallerista?
«Mi fa impressione sentire: primi 20 anni perché, data la mia età, faccio fatica a immaginare che possano esserci dei secondi 20 anni…qualche anno però spero che ci sia ancora in quanto sono troppe le cose irrisolte. Comunque, i 20 anni trascorsi sono stati una continua scarica di adrenalina, qualche giorno ti scopri prossimo a trovare il livello giusto per fare il bene della galleria e degli artisti e all’alba successiva scopri che hai ancora tutto da costruire».
Prima di aprire la galleria, sei stato una delle colonne portanti di Bgs, una delle più importanti agenzie pubblicitarie in Italia. C’è un rapporto tra il tuo lavoro precedente e il tuo impegno nel mondo dell’arte?
«C’è. Per quanto possa sembrare poco credibile, ho sempre fatto in modo che il prodotto creativo dell’agenzia fosse sottostante a un’etica e a un’estetica. L’ambizione era che anche con la pubblicità si potesse alimentare il gusto e le buone maniere, mentre in generale molti creativi si compiacciono solo di qualche battuta e di qualche immagine volgare che a loro pare originale, ignorando i danni che a volte con questo producono. Il livello di gusto e le tecniche per rappresentarlo sono filtri che applico quotidianamente anche ora. Non sempre, come sai, la tecnica viene apprezzata nell’arte contemporanea, ma questo rende riconoscibile la mia ricerca».
Il tuo lavoro si è sempre caratterizzato per la ricerca personale delle proposte, evitando condizionamenti da parte del mercato o di realtà già esistenti. È stato più facile o più difficile lavorare così?
«Ho appena accennato che inserisco dei filtri per decidere se una cosa mi interessa portarla avanti o no. Un’altra esperienza che ho mutuato dalla pubblicità è che quel che proponi devi pretendere che sia il più possibile distante da quel che fanno gli altri operatori sul tuo territorio, in modo che la tua proposta miri ad essere riconoscibile. Devo ammettere che l’altra strada, quella di assoggettare le proprie scelte a quelle di operatori o realtà di successo, avrebbe probabilmente pagato maggiormente in termini economici, ma non avrebbe appagato il mio ego di creativo».
Quali sono le mostre che hai fatto che hanno lasciato una traccia per te, nel percorso della galleria?
«Mi metti in difficoltà, in questi giorni stavo riordinando alcune immagini di mostre e ho scoperto che alcune erano piuttosto dense di significato e di bellezza. Fifteen, la personale che celebrava i 15 anni di relazione tra la galleria e Fabio Viale, è una di quelle. E poi 3D di Giuliana Cunéaz, la mostra di Piero Fogliati, di Glaser/Kunz, intermirifica di Coltro….
Mi viene in mente però che in alcuni casi mi sono dichiarato cromofobico, ci sono molte belle mostre (posso dire “belle” per delle mostre fatte da me senza sembrare presuntuoso?) che sono prive di cromia, quelle con i J&peg, con Antonio Marchetti Lamera, con Daniele D’Acquisto. Stop, ancora un po’ e le elenco tutte».
Ci sono artisti che più di altri hanno lasciato un segno?
«Piero Fogliati, uno dei più grandi (artista o poeta?) della seconda metà del Novecento. La sua capacità di sacrificare letteralmente tutto, dalla famiglia alla salute, per inseguire la sua utopia e renderla fruibile al pubblico usando tornio e corrente elettrica, mi ha letteralmente stravolto e coinvolto. Così come mi ha disgustato la distrazione colpevole che i Musei italiani hanno continuato ad avere sulla sua ricerca. Aspetto che si ravvedano.
Potrei citarne molti altri a incominciare da Fabio Viale, ma voglio qui dire di qualcuno che avrebbe potuto lasciare il segno e non ho saputo seguire nei suoi talenti come Alan Castelli De Capua: vent’anni fa aveva già ipotizzato di intervenire virtualmente con le sue opere all’interno dei Grandi Musei e Marco Bacci che con le sue sculture poteva saturare l’aria di inebrianti aromi».
C’è un artista con cui non hai mai lavorato e ti piacerebbe lavorare?
«No. Sono sicuro che dietro l’angolo ci siano moltissimi artisti con cui avrei trovato piacere a lavorare, ma il piacere a lavorare con qualcuno nasce…lavorandoci assieme. Anche le difficoltà che possono nascere lavorando con un artista possono essere ascrivibili al piacere. Quindi no, non ti so dire con quali artisti mi sarebbe piaciuto lavorare: non è successo e tanto basta».
Come ha interagito l’attività della tua galleria con il territorio della città di Torino?
«Per colpa mia non ha interagito, o non è solo per colpa mia?».
Come si è definita, negli anni, la visione (vision) della galleria?
«Temo di ripetermi, mi piace che i lavori non siano fatti con la mano destra legata dietro alla schiena, mi piace lo storytelling (un’altra eredità della professione di pubblicitario). Non mi piace parlare, ma quando qualcuno viene in galleria non lo lascio solo, c’è sempre troppo da raccontare sui lavori e sugli artisti presentati. Qualcuno alla fine dice che si sente che quel che presento mi appartiene. È una vision?».
Ci sono aneddoti simpatici che ti va di raccontare ai lettori?
«Si. La prima Artissima trovai un istituto di credito che acquistò (dopo averla negoziata allo stremo) un’opera di Fabio Viale. Così almeno pareva. Il giorno dopo a Fiera chiusa mi comunicarono di non avere più fondi. Povera Banca!
Autoportait di Glaser e Cunz (attualmente esposta in galleria) la misi anni fa dinnanzi all’ingresso della galleria sotto i portici di Corso Vittorio, abusivamente devo confessare perché chiedendo il permesso per l’occupazione del suolo pubblico mi fu negato adducendo il fatto che sarebbe stata pubblicità per l’auto, ma non è questo l’aneddoto. Un giorno passò vicino all’auto una signora avanti con gli anni, sorpresa dal contenuto – due persone, non proprio due persone, che conversavano all’interno – chiamò i carabinieri e disse: sotto i portici di corso Vittorio c’è un’auto con due morti che parlano, i carabinieri salirono sulla loro Giulietta e, protetti dal giubbotto antisommossa arrivarono a ispezionare l’auto. Scoperto che non era offensiva e che quindi non era affar loro, ma dovendo risolvere la chiamata, chiamarono i vigili urbani che posero sotto il tergicristallo dell’auto una multa per divieto di sosta.
Ho subito un furto di arte contemporanea (ed è raro che accada che qualcuno sia così attratto da ordinare un furto). Infatti non era così. Stavano scaricando in galleria delle opere di Giuliana Cunéaz di ritorno da Artefiera, e ne sparì una. Vi spiego: il furgone era di fronte alla galleria e le porte del furgone rimanevano aperte, in un attimo qualcuno si impossessò (pensò di impossessarsi) di un Panasonic. Mi immagino la sua faccia quando a casa scoprì di aver rubato un TV Plasma inservibile. Infatti era uno screen painting di Giuliana, cioè aveva lo schermo dipinto (sporco, per lo sfortunato ladro).
Ne ho altri, di aneddoti, ma rischio di dilungarmi, te li racconto la prossima volta in galleria, se torni a trovarmi».
Programmi per il futuro? Intendo le prossime mostre, ma anche guardando più avanti nel tempo…
«Meno male che non vuoi sapere come saranno i prossimi vent’anni, non subito, ma mi immagino a Cervo Ligure. La prossima mostra sarà una mostra di Natalino Tondo (un artista già scomparso) e sarà curata da Lorenzo Madaro, a seguire ci sarà il mese di maggio dedicato alla fotografia, parteciperò a The Phair, ma non ho ancora deciso quale o quali saranno gli artisti.
Poi riprenderò un modulo di mostre, come quella in corso e quella precedente, che prevede un impianto fisso e la rotazione di alcune opere/artisti per mettere a fuoco alcuni loro lavori dimenticati o non capiti al momento in cui feci la prima presentazione, perché troppo in anticipo sui tempi».