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58esima Biennale di Venezia. Vademecum per i ritardatari della laguna
Arte contemporanea
Fuori dal cantiere dell’arte della 58esima Biennale a cura Ralph Rugoff a Venezia, dall’Arsenale e dai Giardini, si vivono tempi più che interessanti, difficili, carichi di insidie, contraddittori, in cui anche la memoria del passato rischia di diventare una fake news. Ma si tratta anche di tempi sorprendenti.
La violenza, le ingiustizie sociali, i cambiamenti climatici; là dove la paura bussa alle porte dell’arte si camuffano in storytelling storie quotidiane di ordinaria banalità di una umanità a-variata. Che dire, ancora, di questa Biennale? Dedalica, tentacolare, complessa, diversamente catastrofista, ambivalente, non nostalgica, immaginifica, certamente interessante, migliore di quella del 2017 senz’altro, convulsamente poliedrica.
La Biennale appare come una piattaforma della conoscenza senza pregiudizi di sorta, dove si confrontano varie tecniche e linguaggi, con alcune opere spiazzanti e molti ambienti immersivi, dove il buio prevale e lo spettatore viene fagocitato per riflettere su paradossi e misfatti del mondo globalizzato. Un mondo inquinato, minaccioso, digitale, robotizzato, violento e perverso, in cui anche la morte cessa di sedurci e la provocazione annoia.
Questa Biennale, intitolata “May You Live In Interesting Times” ricalca il paradigma espositivo consolidato all’insegna della pluralità dei linguaggi delle edizioni precedenti, come è giusto che sia; è nuova nella proposta di riduzione a 79 artisti partecipanti e tutti viventi, vanta nomi meno conosciuti invitati dal curatore a realizzare lavori diversi per entrambe le sedi, ai Giardini e all’Arsenale, lasciando allo spettatore la responsabilità di riconoscere gli autori e leit motiv. Prevalgono le artiste donne sulla presenza di colleghi uomini, e anche questo non è mai successo.
Alcune opere sono impegnative, altre didascaliche, e sulla soglia della deriva contemporanea, tra interminabili code per accedere ai padiglioni che comprendono videoinstallazioni, fanno sorridere i lavori più scanzonati in bilico tra humor, cinismo, paura e speranza, tra l’apocalittico e l’integrazione.
Tutte, comunque, contro l’indifferenza a riconoscere processi di cambiamento in atto, a favore della resilienza.
Le questioni affrontate sono molteplici, ma su tutte prevale l’idea della vita in un maxi videogioco, o come possiamo fluttuare in tempi così fluidi e verificare i limiti dei nostri corpi e delle nostre menti? Cause ed effetti della cultura digitale comportano una capacità di comprendere una pluralità di cambiamenti articolati, di percepire lo spazio e il tempo esteso in rete, e in questo terrain vague, l’arte ci addomestica, forse indica come ridefinire il mondo, nel tentativo di portarci dall’oscurità alla luce della ragione e dell’emozione.
All’Arsenale è indimenticabile l’installazione sonora dell’indiana Shilpa Gupta, tra le migliori in mostra dal titolo For, in your tongue, I cannot fit. E tra installazioni video, animazione digitale, fotografie, tanta pittura e sculture di qualità, le arti visive inscenano lo spettacolo del mondo, che si annuncia “fumoso” , spaesante nell’opera Mi fuma il cervello di Lara Favaretto, con la nebbia che compare e scompare davanti all’entrata del padiglione centrale ai Giardini. L’overdose di violenza aumenta giorno dopo giorno, ormai siamo assuefatti al crollo delle utopie e al tanto cinico torpore della ragione; vacillano anche i principi dei diritti umani, sotto coltri di guerre e imperiture mattanze in cui sono sempre i più deboli a morire.
Il Leone d’oro alla carriera attribuito a Jimmie Durham (Usa, 1940), capace di emozioni fredde attraverso un’austera lastra di marmo marezzato, in cui si configura la crudeltà dell’uomo sulla natura. Su 90 padiglioni presenti, Haiti ha dato forfait e quattro sono nuovi (Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan), i cui luoghi si intrecciano con storie locali e globali insieme, che rimandano a epoche lontane. Il padiglione del Cile propone forme di decolonizzazione culturale con una revisione della storia europea, mettendo in discussione concetti basati su una prospettiva eurocentrica con Alterd Views di Vooluspa Jarpa, in cui si investigano temi di colonia, razza e incroci, soggetti maschili subordinati, cannibalismo, genere, monarchia e repubblica facendo appello a una necessaria revisione critica per interrogarci su chi siamo stati e siamo attraverso un viaggio trans-temporale. Si intitola Ghana Freedom, e vale il viaggio a Venezia per la carica di energia il padiglione del Ghana, con dipinti straordinari di Lynette Yadom Boakye, e tra le altre opere , spiccano le maestose coperte fatte di latta di riuso di El Anatsui (già Leone d’oro nella 56esima Biennale a cura di Okwi Enwezor), prematuramente scomparso quest’anno. Sconvolgenti le foto di Felicia Abban, eterna ragazza di 83 anni, prima fotografa ghanese professionista. Molte le novità del terzo Mondo. L’Africa con i suoi artisti ci ricorda che è ricca di risorse per pochi ma è incapace di liberasi da endemiche forme di colonialismo. L’India celebra Ghandi nei 150 anni dalla nascita, dove emozionano le centinaia di paduka, sandali in legno e non in cuoio (perché questo è materiale di violenza), appesi alle pareti da GR Iranna.
Convince il padiglione del Brasile, territorio di violenza dal passato coloniale, dove lo spettatore viene risucchiato dalla colonna sonora del film Swinguerra, (titolo del lavoro composto dalla parola “swing” combinata a “guerra”) del duo artistico di Barbara Wagner & Benjamin de Burca, attraverso corpi di danzatori provenienti da settori marginali della società prevalentemente neri, transgender inclusi, al centro delle dispute contemporanee sulla visibilità, i diritti legali e l’auto-rappresentazione.
Stranianti i fantocci del padiglione del Belgio, che animano “Mondo cane”, di Jos de Gruyter e Harald Thys, che vestono i panni di psicopatici, artigiani, zombie e altre marionette automatizzate; tutti fuori controllo, al limite tra follia e normalità.
Il padiglione della Grecia presenta in parte l’edizione del 1948, quando, il padiglione fu chiuso per la Guerra Civile e Peggy Guggenheim vi espose la sua collezione arrivata in laguna.
E, per non occupare altro spazio, tra un’opera struggente, che preannuncia apocalissi di un universo postumo senza definire quale, un’altra dissacrante, nell’arena della Biennale beckettiana sospesa tra visioni alla Borges, Fellini e Cioran, al di sopra di tutti gli schieramenti pro e contro, vale il principio della libertà espressiva degli artisti e il loro pensiero vivace come rassicurante certezza di democrazia: un antidoto per esorcizzare la paura oltre le apparenze, improvvisazioni o ispirazioni, fino all’essenza dell’umanità.