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Fondazione Iris apre a Bassano in Teverina: dialogo con Caio Twombly
Arte contemporanea
Quando si parla dei luoghi in cui ha vissuto Cy Twombly in Italia, quasi mai si accenna a Bassano in Teverina e al Palazzo, che lì tutti chiamano, infatti, Palazzo Twombly.
Cy Twombly, vi ha dipinto per un lungo periodo di tempo dal 1975 al 2008 circa, lasciando tracce indelebili che rendono ancora più speciale, oggi, uno dei borghi più belli della Tuscia, che negli ultimi quindici anni gli artisti hanno ripreso a frequentare, onorando la sua magia.
Su suggerimento del barone Giorgio Franchetti, suo illustre cognato, nel 1975 Twombly acquistò il Palazzo fatto costruire dal cardinale Sittico Altemps nel XVI secolo, e l’elegante edificio divenne in breve tempo il rifugio dove immergersi nelle bellezze dell’amata Tuscia, lontano dal frastuono di Roma e dal suo caldo estivo, per dipingere protetto dalle rinfrescanti pareti di tufo.
I luoghi e il contesto hanno sempre avuto un rilievo decisivo nella pittura di questo grande pittore – da cui hanno tratto ispirazione le generazioni degli artisti romani sue contemporanee e tante delle successive in Italia e nel mondo – per la rara capacità di iscrivervi la storia di tempi antichi, intessuta con le emozioni del suo vissuto più intimo, di cui i suoi dipinti ci offrono un’alta testimonianza.
La riapertura di Palazzo Altemps-Twombly ai primi di luglio, voluta dalla famiglia, dopo un restauro di anni – e tuttora in corso – rappresenta uno degli avvenimenti più rilevanti, fra quelli di un’estate ricca di eventi significativi, come questa: un’occasione propizia per dialogare con Caio Twombly – nipote di Cy e della baronessa Tatiana Franchetti, figlio di Alessandro Cyrus Twombly, pittore e scultore affermato e di Maria Soledad Olivera, stilista di grido – proprio a lui toccherà, infatti, il difficile compito di rifondare, e al tempo stesso rilanciare e rinnovare la storia significativa di questi ambienti.
Mi vuoi raccontare come sono andate le cose?
«Diciamo che parte tutto da mio padre che, negli ultimi vent’anni, ha sempre sognato di ricostruire e riabilitare questi spazi. Negli anni Novanta, Cy cominciò a dare la precedenza a Gaeta, dove trascorreva la maggior parte del suo tempo, tralasciando Bassano, che così iniziò a peggiorare. Poi nel 2018 però, per merito di un caso, mio padre conobbe l’artista inglese Thomas Hutton, che era alla ricerca di uno studio e decise di affidarglielo. Thomas, ci ha vissuto per un quadriennio – la sera dell’inaugurazione dovresti aver visto le lampade che ha ideato in loco – affrontando una vera sfida, perché in inverno il freddo si faceva sentire e non c’era acqua calda. Anche l’impianto elettrico era tutt’altro che stabile. Questo interludio è stato davvero importante per porre un filtro tra la presenza-assenza di Cy, non semplice da affrontare, e un nuovo possibile destino che aprisse lo spazio ancora alla vita, senza snaturarlo. In sostanza, la presenza di Thomas ha dato a mio padre lo stimolo per iniziare finalmente i lavori di restauro, come sempre aveva sognato.
Negli ultimi anni, con l’architetto Bruno Gnozzi che ha lo studio proprio nel nostro stesso palazzo a Roma, abbiamo seguito i lavori con la convinzione comune che si dovesse riparare ciò che non era a posto, ma conservare la struttura e lo scheletro del Palazzo intervenendo solo lo stretto necessario. Questa doveva essere considerata, infatti, a tutti gli effetti, un’opera architettonica di Cy, come di fatto lo sono state tutte le case dove ha vissuto».
Ho letto che la gestione del Palazzo è affidata alla Fondazione Iris e ad Amanita. Quali sono le loro finalità?
«Il palazzo sarà effettivamente in gestione alla Fondazione Iris. Mentre Amanita, la galleria che ha sede a New York, avrà l’opportunità di allestire mostre annualmente. Comunque, le due realtà non sono vincolate fra loro.
Il nome della Fondazione viene dalla passione di mio padre per l’Iris che da sempre è il suo fiore totem, nell’arte come nella vita. Una delle sue ultime missioni umanitarie è il sostegno dato a dei giovani libanesi che sui monti sopra Beirut coltivano l’Iris Basaltica, fiore di rara bellezza, per proteggerlo dall’estinzione provocata dagli incendi estivi. Tuttavia, ciò che è davvero incredibile è che mio padre sia capace di ricreare l’ambiente endemico per poter piantare queste specie anche da noi come fa, in particolare, nella sua casa nel viterbese. Una volta, una mia professoressa mi disse che ogni uomo ha un’ossessione, ebbene quella di mio padre, si bilancia tra gli Iris e i funghi porcini. L’Amanita Muscaria che mi piace pensare come “ombra Junghiana” del porcino, perché cresce in prossimità e fa da “spia” alla sua presenza, ha invece sempre affascinato me, sia a livello estetico che antropologico».
Una passione quella per i funghi, coltivata nelle camminate in Alto Adige, intorno a Castel Gardena, sotto il Sasso Lungo, che dal 1926 è di proprietà della famiglia Franchetti. Un luogo straordinariamente romantico con catene montuose tra le più belle d’Italia, ma Alessandro mi aveva raccontato che nella casa di via Appia Antica tua nonna coltivava un piccolo orto e che è stato da lei che imparò a piantare i semi, semi che oggi, in molti casi, sono diventati degli alberi altissimi. Anche nella sua pittura c’è la sensazione di un forte germogliare di forme e di vita da cui si sprigiona un’intensa energia. Provo una grande ammirazione per l’intreccio che nella tua famiglia si è sempre sviluppato fra arte e natura. Due entità che stanno a fondamento di ogni cultura. Come pensi di comportarti nei confronti della grande responsabilità che ti è stata affidata?
«Ti confesso che ho avuto una forte incertezza nei confronti del progetto di rendere pubblico lo spazio di una personalità tanto riservata quanto quella di mio nonno che a Bassano, peraltro, faceva entrare solo le persone di famiglia o gli amici più intimi.
Poi, tuttavia, considerando che quello che io e la mia famiglia stiamo creando, è comunque un progetto per l’arte ho capito che il legame con Cy non può essere dettato dal suo “personaggio”, ma deve ispirarsi a quello che ha rappresentato e che rappresenta culturalmente. Una cosa di cui gli artisti, e la stessa storia dell’arte, possono ancora nutrirsi. Comunque, questo spazio è per me talmente speciale che sento di non poter mettere limiti alle possibilità di quello che eventualmente si farà».
Affacciandomi dall’altana su in cima, l’altra sera con quel magnifico paesaggio, mi pareva di rivedere Cy, come una volta lo incontrai su una nave al ritorno dalla Grecia, con gli occhi fissi all’orizzonte, dimentico di ogni altra cosa che non fosse la sua chiara, ma indicibile, aspirazione all’infinito e alla bellezza.
«Siamo circondati dalla natura e il palazzo ha indubbiamente una magnifica vista. Non siamo però in mezzo alla campagna, ma in un borgo. E la vita del paese conta. Gran parte di ciò che mi ha impegnato nell’ultimo periodo riguarda l’idea di come valorizzare il borgo di Bassano in Teverina, perché mi sono molto affezionato al paese e a questa gente di cui ho avvertito le aspettative nei confronti delle opportunità che possono nascere per loro. Molti di loro si ricordano ancora molto bene di Cy. In futuro, credo, che si potrà anche pensare a fare mostre di altissimo livello e risonanza, ma intanto inaugurare Iris con una mostra di Robert Nava è stata per me una scelta significativa. Robert è uno dei primi artisti con cui ho lavorato e mi sono confrontato – le nostre passioni comuni e il suo apprezzamento per Cy lo rendono un artista perfetto per catalizzare il progetto. Poi, il suo lavoro è molto viscerale, però con un grande sostrato mitologico, dunque, sempre rilevante per la pratica di Cy.
Per quanto riguarda Amanita, la mia ambizione è sempre stata soprattutto quella di scoprire talenti italiani, avendo tuttavia dei soci, pensiamo anche a lavorare con artisti affermati. Credo che questo possa essere uno stimolo ulteriore anche per gli artisti italiani».
L’Italia, lo sai, è stata un po’ sempre presa di mira, ma non sono mai riusciti a colonizzarla, davvero. La forza della sua ineguagliabile cultura le ha permesso di integrare le spinte che arrivavano da fuori, trasformandole in opportunità di rinnovamento, senza mai passare per la semplice imitazione.
Mi dicevi della Galleria Amanita a New York.
«A New York la galleria nasce nella Lower East Side di Manhattan, dove un tempo c’era la storica discoteca CBGBs, una sorta di Mecca per la musica punk dalla grande storia ed energia. Lo spazio è ampio e anche lì intendiamo sperimentare il più possibile in modo da poter rendere omaggio a quello che è stato CBGBs».
Credo che le attività performative, come danza, teatro e musica, aggiungano alle così dette arti plastiche, che restano immobili, ciò che è necessario per un vero coinvolgimento e per una partecipazione della comunità.
«In effetti la musica è la forma d’arte che più efficacemente accomuna le persone. Ho vari amici musicisti e ad esempio, organizzare concerti è senz’altro qualcosa che mi piacerebbe molto fare».
Una fase di sperimentazione aperta gioverà sicuramente a trovare la rotta. Quello che è andato perduto, a causa delle strutture comunicative di cui la cultura si è voluta dotare per assecondare la civiltà di massa – dai festival alle fiere – è il senso di appartenere a una comunità molto speciale, come è sempre stata quella dell’arte e del pensiero, dove la condivisione e il confronto non si limitava a visitare, controllare, o a sfiorarsi alle mostre, ma si estendeva al mangiare, bere e dormire, ossia al vivere, alla possibilità di discutere e di gustare profondamente i piaceri, mettendoli in comune con esperienze a tutto tondo, dove ogni nutrimento, sia spirituale che fisico, aveva il tempo di essere incorporato e dunque anche di crescere per il futuro. È questo tipo di rapporti che bisogna anche pensare di rifondare, perché se non si cambia il modo di stare insieme non ci può essere neanche un rinnovamento nell’arte.
«Condivido. I rituali sono molto importanti per me e le passioni sono certamente molto più sentite quando possiamo condividerle. Mi trovo spesso a fare questo discorso con gli artisti e con gli amici su come creare le condizioni, l’ecosistema e la comunità che sono sempre essenziali per la creazione».
Hai in mente qualche progetto di tipo formativo? Dinanzi a un progetto formativo di largo respiro si aprono molte altre strade, si costruisce la struttura portante di un’idea che, da quanto mi dicevi, non riguarderà solo l’esperienza artistica, ma anche la capacità di dare un orientamento alla transizione cruciale che stiamo attraversando.
«Per ora, c’è sicuramente l’intenzione di trasferire tutta la biblioteca di Cy a Bassano e, tra le ambizioni di Iris, c’è anche quella di ospitare studiosi di rilievo per mantenere il suo archivio vivo. Inoltre, da parte mia, c’è il desiderio di studiare e conoscere più profondamente la Tuscia degli Etruschi, un territorio che sento speciale, per la maggior parte ancora inesplorato, misterioso ed esoterico. Questi aspetti della posizione geografica e storica di Bassano in Teverina mi piacerebbe approfondirli».
Quali sono stati i tuoi studi all’Università?
«Filosofia e Storia dell’Arte».
Storia moderna è invece l’area coltivata da tuo padre, ma anche Cy era a suo modo uno storico e ha molto indagato il mondo romano e quello etrusco, lo dicono le vestigia che ha raccolto e che trovano in questo luogo una splendida rappresentanza.
«Per questo, però, ho sempre il timore di intromettermi in questo mistero. È importante mantenere l’intimità di questi luoghi e preservare la loro sacralità, invece di consegnarli a masse indifferenti di turisti. Cercheremo di trovare un equilibrio».
Un timore e una prudenza che ti fanno onore. Voglio raccontarti in proposito una storiella istruttiva: nelle mie indagini su luoghi dove hanno vissuto artisti, scrittori e personalità che mi hanno affascinato, dopo aver visitato la residenza in cui Jung riceveva i propri pazienti, nel 2015 a Kusnacht vicino a Zurigo, decisi di spingermi verso il suo sito più segreto, Bollingen, sempre sul lago di Zurigo, dove Jung si isolava a meditare, spaccava la legna, incideva la pietra e dove, pressoché da solo – con pochissimi aiuti – aveva costruito due torri circolari di pietra. Quel luogo, ancora oggi, è privato, non vi si può accedere che con permessi speciali, ma ebbi la fortuna di imbattermi in uno dei pronipoti con sua moglie e visto l’interesse che manifestavo, mi lasciarono entrare, intrattenendosi con me. Quello che mi toccò profondamente fu la semplicità e la verità delle loro parole, che non si riferivano né agli aspetti filosofici, né a quelli psicologici del loro grande antenato, ma all’insegnamento ricevuto dal suo comportamento e dal suo stile di vita. Avevano voluto continuare a mantenersi privi di tutte le comodità di cui la maggior parte di noi non può più fare a meno – facevano a meno della luce elettrica e prelevavano ancora l’acqua dal pozzo. Questo, in cambio, dava loro la possibilità di coltivare le esperienze pratiche e di ritrovare ritmi più lenti, molto benefici per un approccio rispettoso della vita e della realtà, nei suoi bisogni essenziali. Era questa la grande lezione che avevano ricevuto da Jung.
«Allora ti dico, che sono anch’io un grande appassionato di Jung. Ho persino cercato in passato di fare una mostra dedicata a lui, ma nonostante un contatto epistolare prolungato con uno dei suoi nipoti, l’impresa si è rivelata alla fine superiore alle mie forze e ho dovuto desistere. Proprio a Kusnacht c’è in questo momento un’importante mostra che raccoglie e interpreta molti dei disegni elaborati dai suoi pazienti. E sai? ho scoperto che Cy era un lettore di Jung. È stato molto bello guardare i suoi libri che contengono ancora le sue sottolineature».
Pensavo ora che con tutti gli artisti della tua famiglia, nonno, padre, nonna – siamo in pochi a sapere che Tatia dipingeva e che era anche molto brava –, tu hai scelto di fare il gallerista, il manager e anche il curatore mi pare.
«Ho molta difficoltà a identificarmi con questi titoli. Li sento poco miei».
Credo che la giovinezza diffidi sempre delle definizioni. Ogni definizione rischia di restringerci a una categoria piuttosto che a un’altra che potrebbe non assomigliarci affatto.
«Anche perché molto del lavoro che faccio sento di farlo come “sacrificio”, ma sempre con piacere».
Un’offerta agli Dei, e in particolare ai Lari e ai Penati, direi (sorrido).
«Diciamo che mi piace assumermi delle responsabilità, perché questo mi restituisce parecchio anzi, mi soddisfa e mi onora, in qualche modo. Vorrei anche avere un lavoro solo per me stesso, ma non penso sia ancora venuto il mio turno».
Tu dipingi anche?
«Disegno soprattutto. Ora sto studiando il giapponese. E credo che questa lingua sarà la chiave di qualcosa».
Vista la quantità di scambi che dal Settecento e, soprattutto, dall’Ottocento, ci sono stati tra il pensiero occidentale e quello orientale, proprio a partire dal Giappone, non ne dubito. Cosa t’interessa, in particolare, del Giappone?
«Mi attrae sotto il profilo formale la calligrafia e mi piacciono gli ideogrammi. Penso all’impatto psichico che può avere per me un’immersione totale, attraverso la lingua, in un altro universo. Un mondo alieno da altre conoscenze, memorie e radici. Non so ancora a cosa mi porterà, ma imparare la lingua mi sta creando una seconda dimensione che desidero decisamente approfondire».
La conversazione tra me e Caio si conclude qui. Scendendo le scale del Palazzo di Roma, dove molti anni fa incontrai Cy Twombly circondato dai busti romani che popolano ora gli spazi di Bassano in Teverina, e da una mobilia interamente ricoperta di drappi bianchi per non disturbare la visione dei suoi grandi, strepitosi dipinti, ho avvertito che lo spirito, l’aura che si sprigionava dalla sua persona così rara e speciale sta finalmente facendo ritorno a casa e questo mi ha dato una rinfrancante sensazione di fiducia.