È un palmento, costruito intorno alla metà dell’Ottocento per la spremitura dell’uva, la sede della nuova galleria di Catania, Collica & Partners, ai nastri di partenza dal prossimo 20 gennaio. Ne parliamo con il co-fondatore, Gianluca Collica, in un’intervista a tutto tondo.
Ci tracci un breve promemoria del tuo excursus di gallerista, anche in riferimento agli spazi espositivi che hai aperto nel tempo e dove?
«Quando mio padre nel 1987 mi coinvolse nel suo progetto galleria, ho subito realizzato che stare dietro una scrivania non facesse per me, soprattutto se stimolato da una Sicilia allora povera di opportunità sul contemporaneo, di cui tuttavia intuivo enormi potenzialità di crescita. Come un camaleonte ho cambiato pelle diverse volte, ruoli e spazi espositivi, mosso da carenze, ambizione e limiti oggettivi.
Dopo l’Andrea Cefaly aperta nel 1987, una breve, ma formativa apparizione a Milano con la Maestri Incisori, purtroppo in piena tangentopoli, quindi nel ‘97 a Catania con il primo vero spazio di ricerca, il primo con il mio nome. Nel Duemila lo chiusi per aprire il Centro per l’Arte Contemporanea Palazzo Fichera, il prototipo di ciò che oggi è la Fondazione Brodbeck. Fatto il castello, decisi di tornare alle stalle, e comunque di tener in vita la Gianluca Collica riaprendo a partire dal 2008, in sequenza e in spazi differenti, la gianlucacollica, la collicaligreggi e, finalmente, oggi la Collica & Partners».
La galleria che stai per aprire è in un’abitazione privata, quella di tuo padre gallerista dove sei cresciuto, ubicata non in periferia, ma neanche in centro. Come mai questa scelta?
«Questo vecchio palmento era l’abitazione dei miei genitori, ma soprattutto la sede della collezione di mio padre e il luogo dove si consumavano tutti i dopo-mostra. Una dimora magica impressa nella memoria di tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di frequentarla. Quell’atmosfera mi manca molto. Negli ultimi anni ho vissuto il mondo dell’arte con un certo disagio, dovuto ad aspettative spesso disattese che, tra l’altro, mi hanno fatto ragionare sul white-cube, per anni modello di riferimento, per il quale gradualmente ho perso interesse a favore di situazioni più a misura d’uomo, in cui l’arte si confronta con la quotidianità e la mostra si svela agli occhi per gradi. Un luogo dove raccontare una storia sentendomi a mio agio. La situazione che stiamo vivendo ha risolto tutto…un giorno ho chiesto a mia madre se potessi trasformare la casa in galleria…e lei, fino ad allora sempre titubante, mi ha risposto questa volta di sì.
Riguardo alla periferia nessun problema, ci sono abituato. Catania, la Sicilia intera, dopo il 1920 è sempre stata periferia. Da sempre lavoro in condizioni precarie, impegnato a inventare situazioni improbabili e a gestire grandi imprese con l’incoscienza di chi non ha timore di non riuscire… Alcuni cari amici, con un po’ di ironia, mi hanno soprannominato “il maestro del rammendo”. Forse hanno ragione, ma per fortuna le toppe che metto sono resistenti».
Quali sono le caratteristiche del nuovo spazio espositivo?
«È come detto un palmento costruito intorno alla metà dell’Ottocento per la spremitura dell’uva. Si articola su due livelli, oggi collegati da una scala, ristrutturato dall’architetto Vittorio Brescia. Le pareti interne sono ricoperte da quello che da noi si chiama sestiato, un mix di terre laviche e calce: è l’intonaco esterno che colora di rosso o di nero il paesaggio etneo… Io ho pensato bene di rovinarlo ricoprendo 100 mq delle vecchie pareti con una contro-parete bianca, in modo da facilitare il lavoro agli artisti, altrimenti in difficoltà rispetto a uno spazio così connotato. La superficie è di circa 350 mq. Il tetto è imponente, e presto ristruttureremo il sottotetto che consentirà di ampliare lo spazio di ulteriori 180 mq».
In questa nuova avventura culturale e imprenditoriale ti affianca un nuovo socio?
«A me piace il lavoro in squadra, soprattutto ho tanti difetti e Maurizio D’agata minimizza quello più importante: è un esperto dealer. Lui è socio e responsabile vendite della nuova galleria. In Italia abbiamo due mercati importanti, quello che fa riferimento a Torino del quale ho una certa esperienza, e quello tradizionalmente legato alla pittura moderna e contemporanea che fa riferimento a Bologna, dove lui è molto più ferrato. Siamo convinti che oggi sia finalmente maturata l’idea che l’arte non sia un problema di parrocchie, ma di qualità. D’Agata mi aiuterà a verificare se questa teoria è valida. O se Christoph Meier sarà acquistato sempre dai Torinesi e Giovanni Iudice dai Bolognesi…».
Con quale progetto espositivo inauguri? Quali saranno gli elementi distintivi della tua programmazione espositiva nella nuova sede?
«”0 :1 palla al centro” rispecchia ironicamente un dato di fatto ineluttabile: sono sempre partito in svantaggio, ma è sottointesa nel titolo la mia caparbietà nel rincorrere le utopie. È una mostra che coinvolge tutti gli artisti della galleria e qualche ospite. Vorrei proporre un racconto, ed è chiaro che conosco meglio quello che ho vissuto in prima persona.
Aggiungo che se sono una frana come mercante, posso invece dire d’essere abbastanza capace nel partecipare con grande passione alla creatività degli artisti in cui credo. Questo mi ha consentito di scrivere un bel racconto che cerco di riassumere con questa mostra.
In sintesi propongo il mio punto di vista, una personale idea dell’arte, che oggi condivido con il mio nuovo socio, ma che ho definito grazie a esperienze vissute con qualche ottimo storico. Non posso non citare Giovanni Iovane su tutti, un caro amico come Paolo Brodbeck e, soprattutto, gli artisti che più apprezzo.
Ho avuto la fortuna di vivere tre fasi cruciali negli ultimi trent’anni. Gli anni Novanta, quando cambia il punto d’osservazione con cui gli artisti analizzano il reale. Il tracollo economico del 2008, che ha determinato enormi falle nella carena di un’arte autoreferenziale e autoriale, fino a quel momento col vento in poppa, illudendo noi piccoli d’essere parte di un gioco del quale eravamo in realtà solo umili comprimari. E la pittura nella quale sono nato grazie a mio padre, e alla quale ritorno con curiosità per il “nuovo”, con attenzione e rispetto per chi a causa della “logica delle parrocchie” è stato fino a oggi ingiustamente oscurato».
Ci puoi già anticipare i prossimi progetti in calendario?
«In programma ho una serie di mostre personali. La prima è quella di Viola Yeşiltaç, quindi Franceso Lauretta, Rä di Martino, Alfedo Pirri e Salvatore Vitagliano. Ma la nostra progettualità si svilupperà anche al di fuori degli spazi fisici della galleria.
E in tal senso segnalo due iniziative. La prima sulla pittura. Oggi una delle note comuni tra gli artisti è una rinnovata attenzione per la narrazione che nella figurazione ha probabilmente lo strumento più idoneo a esprimere la relazione tra arte e quotidianità, arte e memoria, arte e Storia. Il Meridione d’Italia per altro nel Novecento ha espresso numerosi esempi di grande pittura figurativa. Ritengo pertanto che sia proprio questo il luogo da cui ripartire con un focus su quattro artisti, siciliani fino al midollo, tutti in debito con la pittura italiana, ma che al tempo stesso manifestano personali e differenti intenzioni nell’uso di questo linguaggio: Barbara Cammarata, Francesco De Grandi, Giovanni Iudice e Francesco Lauretta.
La seconda iniziativa parla del cambiamento di prospettiva avvenuto in modo repentino agli inizi degli anni Novanta, allorché alcuni autori avvertirono la necessità d’esperire un dato contesto prima di definire temi, strumenti e forme con cui esprimerne valori intimi e nascosti. Con un approccio a volte filosofico o antropologico, storico, piuttosto che sociologico o scientifico se non letterario. Come se fossero studiosi, scienziati o poeti in grado di esprimersi esclusivamente attraverso un alfabeto visivo: Mario Airò, Massimo Bartolini, Eva Marisaldi, Liliana Moro, Andrea Santarlasci, Luca Vitone.
Comunque è difficile programmare, tutto cambia di giorno in giorno e quanto dico può essere stravolto da un momento all’altro per cause di forza maggiore… Per me tuttavia è sempre stato così. Sono abbastanza bravo nel districarmi nelle emergenze. Ecco perché la domanda alla quale non so mai rispondere è: quale è la programmazione del prossimo anno?».
Stai per aprire un nuovo, imponente spazio espositivo in piena pandemia. Come immagini l’evoluzione della tua professione post-Covid? Quale sarà, a tuo avviso, nella cosiddetta “nuova normalità” il ruolo della galleria intesa come spazio fisico? Si tornerà a una maggiore centralità del ruolo della galleria rispetto, per esempio, all’escalation delle fiere? Cioè a dire: ci sarà un riequilibrio tra la dimensione global e quella local della galleria?
«Senza la crisi del 2008, e questa ancor più tragica legata al Covid, credo che la nostra professione avrebbe preso una deriva pericolosa, a rischio estinzione soprattutto per quelle belle realtà che credono che l’arte sia una questione estetica piuttosto che economica. Le crisi per noi piccoli sono ahimè paradossalmente i momenti in cui hai le maggiori possibilità di rendere visibile un lavoro di ricerca che altrimenti difficilmente emerge. Detto questo, l’arte fino a oggi sensibile alle istanze della globalizzazione, è alla ricerca di un nuovo assetto. E, al momento, sembra mirare a esperienze che non si consumano più nei grandi eventi espositivi o di mercato, ma che accompagnano giornalmente il nostro presente partendo da quanto ci è più prossimo, vissute con maggior intimità e riflessione.
Una condizione che da una parte giustifica un maggior impegno della nostra galleria nel definire una propria identità partendo dall’origine e dal contesto in cui opera e che dall’altro, consente a territori come la mia Sicilia di crescere con modalità e ritmi più consoni alla propria situazione periferica, senza disattendere le aspettative di un sistema dell’arte rinnovato e forse, questa è la speranza, più sano, in cui la ricerca artistica è sempre da anteporre alle esigenze del mercato.
Ritengo inoltre che entreranno in crisi molti dei pilastri su cui si regge il sistema dell’arte, primo fra tutti quello delle fiere, sulle quali tutti già in tempi non sospetti si cominciava ad avere delle perplessità. Sono la massima espressione del pensiero global e, alla luce di quanto accade, o trovano una dimensione più umana e una nuova identità, oppure rischiano di naufragare. Credo inoltre che cambierà la relazione tra artisti e galleria. Il rapporto d’esclusiva ad esempio sarà difficile da mantenere in un mercato che si propone su piattaforme global, ma virtuali. E per fortuna i galleristi potranno esprimersi nuovamente con scelte figlie delle proprie passioni piuttosto che di fredde strategie costruite a tavolino».
Quali sono le tue stategie digital invece? Le hai implementate a seguito del lockdown? Utilizzi e-commerce o piattaforme dedicate (Artsy, ecc.)? Con quali risultati?
«Il lavoro più impegnativo durante questi lunghi mesi di lockdown è stato quello di ripulire tutte le immagini di un archivio che racconta quanto ho realizzato dagli anni Novanta a oggi. Ho sempre lavorato dietro le quinte, non mi sono mai esposto, ma oggi desidero far sapere quanto ho realizzato nella mia carriera. Non è vanità, piuttosto piacere di condividere. E spero con questo di dare maggior credito alla mia nuova galleria. Il nostro sito internet collicandpartners.it racconta anche questa storia.
Comunque un altro mio difetto è sempre stata la comunicazione. Stiamo lavorando in tal senso su più fronti. Da una parte ho potenziato lo staff proprio per assicurare un normale funzionamento degli strumenti social divenuti, ahimè, importantissimi. Dall’altra, sto cercando di condividere dei servizi con altre realtà che operano nel mio territorio, organizzando degli uffici tematici gestiti da chi in questa mini rete territoriale ha maggiore attitudine per la comunicazione, la vendita, i rapporti con il pubblico, l’associazionismo, i programmi di residenza.
Sull’e-commerce sto facendo delle valutazioni. L’idea di costituire una piattaforma sicula mi attrae molto. La Sicilia è un brand potentissimo. Per il momento è però solo un’idea condivisa con altri colleghi, e che comunque ha lunghi tempi lunghi di realizzazione. Per ora l’alternativa sono i siti consolidati che tutti conosciamo e che molti usano. Ma tu sai che vado sempre un po’ contro corrente. Quindi sto lavorando su un programma di residenze un po’ particolare, non è rivolto né ad artisti né a curatori, ma ad art consulting e art dealer. Di questo ne parleremo più nel dettaglio dopo le prime residenze. Non mi piace vendere la pelle dell’orso prima del tempo».
Qual è l’identikit del collezionista a cui ti rivolgi?
«Ho la sensazione che oggi un collezionista non sia più mosso come un tempo dall’idea del possesso, bensì dal piacere di sentirsi parte di un progetto. I collezionisti che più amo sono quelli che condividono con me le idee su cui si basa la ricerca della galleria e che apportano a questa un supporto economico e strategico. Ora non so se queste è la sensazione che altri miei colleghi hanno, ma sempre più spesso accade d’essere contattati da persone che si confrontano con noi su questo piano, e con qualcuno di essi i risultati vanno oltre ogni più rosea aspettativa. È come se si condividesse una comune passione senza la pressione dei ruoli. Sono spesso nuovi professionisti e giovani imprenditori alla ricerca di una cifra culturale e identitaria nella quale riconoscersi».
Quali sono, a oggi, gli artisti da te rappresentati?
«Nell’ultima esperienza fatta con la precedente galleria gestivo rapporti con undici artisti, la maggioranza dei quali ha accettato di aderire al mio nuovo progetto. La minore mobilità generata dalla crisi in atto, la conseguente ricerca di unicità in una dimensione territoriale e, al contempo, la necessità di implementare la visibilità e il credito della galleria nel sistema internazionale, suggeriscono un aumento del numero degli artisti in grado di intercettare ambiti differenti e conferire alla struttura un’identità complessa, definita anche dai diversi modi con cui ciascuno interpreta il proprio ruolo nel sistema dell’arte e nella società. Il tutto naturalmente legato a una pianificazione temporale delle attività meno incalzante.
Attualmente sono a quota diciotto: Federico Baronello, Barbara Cammarata, Mauro Cappotto, Francesco Di Giovanni, Rä di Martino, Giovanni Iudice, Francesco Lauretta, Urs Lüthi, Andrea Mangione, Christoph Meier, Ryan Mendoza, Ute Müller, Carmelo Nicosia, Nicola Pecoraro, Alfredo Pirri, Andrea Santarlasci, Michele Spadaro, Salvatore Vitagliano, Viola Yeşiltaç. E al di là della fama di ciascuno e del mio personale interesse per la loro poetica, tutti interpretano il ruolo d’artista in modo differente a seconda del contesto in cui operano.
Questo determina continue e proficue discussioni che permettono di crescere insieme nella differenza di poetica e linguaggio. Comunque sono tutti accomunati dalla necessità di osservare la vita con uno sguardo orizzontale distante da qualsiasi strategia che miri a condizionare la conoscenza».
Qual è, a tuo avviso, lo stato di salute del sistema del contemporaneo a Catania, nel pubblico e nel privato? Quali ritieni che siano a oggi i suoi punti di forza e i suoi punti deboli?
«Io so che quanto ti dico lo condividi al cento per cento perché sei un grande estimatore del mood catanese. Il sistema dell’arte nella mia città principalmente si sostiene grazie a investimenti privati e a un collezionismo sempre più interessato alla ricerca contemporanea. Università e Accademia delle Belle Arti autonomamente, o in sinergia con altre realtà territoriali, sono sempre più contaminate dal contemporaneo. Escluse loro, tuttavia, il settore pubblico risente ancora di mancanza di strategie e di competenze.
È paradossale, ma Catania è una delle poche città dove, a un certo livello di specializzazione, si preferisce non sprecare energie con le Amministrazioni di turno. È come se queste non riconoscessero l’alto livello qualitativo raggiunto e il credito acquisito dalle realtà private nel sistema dell’arte. Un atteggiamento che mortifica gli sforzi di chi appunto investe privatamente per inserire in maniera stabile il territorio nella mappa contemporanea globale. Una sinergia condivisa in tale senso è indispensabile.
Non sono maturi però i tempi, perché la staffetta generazionale che nel privato ha fatto cambiare marcia alla città, nel pubblico, anche in presenza di rare eccezioni, rimane ancora intruppata nella logica di una politica poco sensibile e clientelare».
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