A Milano, le riflessioni di Francesco Sgarlata sull’onnipresenza della plastica

di - 10 Agosto 2022

Non è nuova la notizia secondo cui oggigiorno le microplastiche non solo sono presenti negli oceani in cui nuotiamo e nel pesce che mangiamo, ma anche all’interno del nostro stesso corpo. Francesco Sgarlata propone una riflessione sull’ingente presenza di questo materiale all’interno delle nostre vite. Il 18 settembre l’artista performerà “PlasticFul – How stupid are we?” per la città di Milano, percorrendola da nord a sud.

L’azione, a cura di Nicola Tineo, vedrà Sgarlata camminare per le vie della metropoli nell’atto di raccogliere ogni tipologia di rifiuto di plastica incontrato nel percorso, per poi legarselo addosso e trasportarlo con sé fino ad Associazione Zona Blu, in via Boffalora 15. È già possibile immaginare la quantità di oggetti che il suo corpo dovrà trasportare, rendendo sempre più tangibile, attraverso lo sforzo del performer, la smisurata quantità di rifiuti che l’umano produce e disperde inconsapevolmente nel medesimo ambiente in cui vive e abita, e del quale dovrebbe invece prendersi cura.

Ad avvalorare la tagliente critica sarà il momento conclusivo: nell’ultima tappa Sgarlata creerà un’installazione utilizzando, e dunque riciclando, tutti i rifiuti raccolti. Questa apparirà come un mostro, un contemporaneo Leviatano le cui membra, composte secondo Hobbes dai cittadini, risulteranno formate da quello che più rappresenta l’umanità in questo momento storico e politico: la plastica.

Lo scorso maggio l’artista aveva inoltre già collaborato con l’associazione in questione, presentando la personale “PlasticFul”, una prima riflessione sulle stesse tematiche a cura di Claudia Caletti, presso Tufano Studio. Per tale occasione Sgarlata aveva, prima di tutto, coniando il nuovo termine in questione: plasticful, traducibile in italiano con plasticoso. Un lemma che nasce con l’obiettivo di descrivere la situazione fuori controllo che stiamo attraversando, in cui tutte le regole del vivere umano sembrano ormai essere dettate da questa onnipresenza, che ha invaso la nostra esistenza in ogni sua accezione, e non senza ripercussioni.

Risale solo al 2019 la proposta della studiosa Heather Davis di adottare il nuovo termine plasticene per descrivere l’era geologica in cui ci troviamo. Un’inedita definizione in grado di dare conto di una condizione secondo la quale tutto il substrato terrestre si ritroverebbe ormai interamente ricoperto dalle micro-particelle del materiale. Si può addirittura dire, come suggerisce lo studioso T.J. Demos che, in tale visione fatalista, ma tristemente veritiera, la plastica appare come la realizzazione del sogno umano di poter abitare sulla Terra per sempre.

Il percorso allestitivo di Sgarlata si articolava attraverso una riflessione nata a seguito della visione del documentario, del 2016, “A Plastic Ocean”, girato dal registra australiano Craig Leeson che, in viaggio in Sri Lanka, partito con l’intento di realizzare un lungometraggio sulla balenottera azzurra, ha tristemente osservato l’animale nuotare in un mare, letteralmente, di rifiuti e ha trovato così più urgente parlare della condizione ambientale.

La mostra accoglieva il suo pubblico con un plastic carpet che lo accompagnava per tutta la visita. Tra i lavori esposti, “Plastica #2”, presentava un gruppo di palloncini gonfiati a elio in cui ognuno di essi, a ridosso del soffitto, riportava un filo al quale vi era appesa una piccola spada rivolta verso il basso, quindi verso il fruitore. Il lavoro riprendeva, in accezione contemporanea, il mito di Damocle, secondo cui ogni creatura umana avrebbe una spada che le pende sulla testa a ricordarle che tutti, prima o poi, moriremo; in questo caso, l’artista ha voluto creare un moderno memento mori che si fonda sulla minaccia che rappresenta per noi la plastica.

A metà percorso era esposta una pittura, medium di eccellenza dell’artista, raffigurante una donna, senza volto, porgere in avanti una ciotola di acqua in cui galleggia un bicchiere di plastica. L’assenza della sua espressione e la solennità del gesto sembravano voler dire che quanto regge tra le mani è tutto ciò che il nostro pianeta, nelle condizioni odierne, può offrirci: acqua sporca.

Il tappeto conduceva infine alla proiezione di qualche minuto del documentario sopra citato, nei quali veniva spiegata la condizione di un gruppo di bambini che vive a Manila, nelle Filippine. Tutte le mattine i ragazzini percorrono lo stesso sentiero, dalla baraccopoli alla spiaggia, dove vi sono montagne di plastica, che questi raccolgono e rivendono per qualche spicciolo. È ora chiaro che il “tappeto” all’interno dello spazio voleva riprendere la quotidianità che tali giovanissimi devono affrontare per vivere, compromettendo la propria salute e vivendo in prima persona le conseguenze di un ab-uso che ha una radice mondiale, se non tipicamente occidentale.

Entrambi i percorsi, della mostra di maggio e della performance che sarà presentata a settembre, nascono quindi con lo scopo di destare nell’umanità una maggiore consapevolezza rispetto a un sopruso di cui siamo tutti complici.

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