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A Bergamo apre l’Archivio dedicato a Gianfranco Ferroni, l’artista della Metacosa
Arte contemporanea
A Bergamo ha inaugurato la sede dell’Archivio Gianfranco Ferroni. L’archivio si trova all’interno di Palazzo Stampa, uno degli edifici più significativi della storia della città e che prende il nome dall’ultima famiglia proprietaria, di origine elvetica.
Il presidente dell’Archivio è Arialdo Ceribelli che ha seguito per oltre 30 anni l’opera di Ferroni in qualità di amico e gallerista, sua figlia Marta è membro fondatore del consiglio direttivo, mentre il vicepresidente è Michele Maria Porro. Si aggiungono Maria Grazia Recanati, membro del comitato scientifico dell’Archivio, insieme a studiose come Chiara Gatti, Francesco Guzzetti, Nadia Marchioni.
L’Archivio Gianfranco Ferroni di Bergamo punta ad avere respiro internazionale e assume i compiti di «Esaminazione, studio, valorizzazione e documentazione delle opere», di rilascio delle autentiche dopo le dovute analisi, di «Promozione e curatela della pubblicazione di documenti, saggi, cataloghi, biografie, opere letterarie e sussidi informatici». Le sue attività comprendono «Mostre, esposizioni temporanee, convegni, dibattiti e pubblicazioni finalizzate alla divulgazione e celebrazione dell’opera dell’artista». A questo scopo è stata presentata la prima pubblicazione Abitare l’Archivio, co-finanziata dalla Fondazione della Comunità Bergamasca — era infatti presente il suo presidente, Osvaldo Ranica — e curata da Elio Grazioli e Anna Chiara Cimoli, docenti dell’Università di Bergamo.
Gianfranco Ferroni, alcune note biografiche
Gianfranco Ferroni nacque a Livorno 1927, si trasferì con la famiglia ad Ancona ma nel 1944 a causa della guerra fu costretto a interrompere il suo percorso di studi – al Liceo scientifico – e a trasferirsi prima a Milano e poi a Tradate, in provincia di Varese, dove visse un periodo segnato prima dalla solitudine, poi dall’allontanamento dai genitori non propensi ad accettare la sua scelta: dedicarsi all’arte.
Nel 1946 arrivò a Brera dove conobbe il critico Franco Passoni e nel 1952 frequentò i pittori del realismo esistenziale staccandosi così da un realismo di stampo politico e sociale: il gruppo di Mino Ceretti, Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, e Tino Vaglieri. Con quest’ultimo, nel 1956, intraprese un viaggio nelle zone più arcaiche della Sicilia che lo cambiò nel profondo, portando a dei cambiamenti poetici nella sua opera, a causa del turbamento per la soppressione ungherese e per la delusione legata al suo attivismo politico con il PCI.
Partecipò alla Biennale di Venezia nel 1958 e prese parte alla III Biennale del Mediterraneo ad Alessandria d’Egitto. Espose sia alla Galleria Bergamini di Milano che alla Galleria Galatea di Torino. Negli anni della contestazione politica perse i punti fermi. Nel 1968, nella stanza a lui dedicata alla Biennale di Venezia, decise di girare i quadri verso la parete e appese la tavolozza al chiodo. Dopo un anno, grazie all’incisione, si dedicò nuovamente all’arte. Gli anni Ottanta furono caratterizzati dall’adesione al movimento de La Metacosa, composto da sette artisti. I suoi compagni erano: Giuseppe Bartolini, Giuseppe Biagi, Bernardino Luino, Sandro Luporini, Lino Mannocci e Giorgio Tonelli.
La Metacosa era un movimento dalla forte spinta filosofica, incompreso in un momento in cui la pittura figurativa era vista come retrò e appannaggio di antiquati nostalgici. Il gruppo aveva in mente un obiettivo preciso: indagare il vero attraverso virtuosismo tecnico e pensiero, sollevando il velo di Maya e approdando all’essenza invisibile degli oggetti, «Guardare la cosa come se fosse la prima volta che la vediamo: vergine e scevra da ogni pre-giudizio».
Giunse così alla consapevolezza di voler raccontare la quotidianità ordinaria, mettendo la “cosa” al centro, dipinta senza esaltazioni e idealizzazioni (Galleria Ceribelli).
Nel 1994, la Galleria d’Arte Moderna di Bologna gli dedicò una vasta esposizione, presentata da Maurizio Fagiolo Dall’Arco, mentre del 2007 è la volta di due antologiche: a Palazzo Reale di Milano, a cura di Vittorio Sgarbi, e a Palazzo della Ragione di Bergamo, a cura di Marco Vallora.
Nel 2015, alle Gallerie degli Uffizi a Firenze, con la cura di Vincenzo Farinella, inaugura La Luce della solitudine. Gianfranco Ferroni agli Uffizi.
L’Archivio a Bergamo
Nato dalla volontà del gallerista e amico Arialdo Ceribelli, che da oltre 30 anni porta avanti un lavoro di ricerca, raccolta e archiviazione delle opere dell’artista, l’Archivio sottolinea la connessione che Gianfranco Ferroni ebbe con la città di Bergamo, eleggendola a dimora del suo studio negli ultimi 15 anni di vita. Si allontanò, infatti, da Milano che lo aveva accolto con il fermento artistico e il via-vai del Bar Jamaica, nel periodo di Tangentopoli. La sua quotidianità era segnata dagli spostamenti dalla casa allo studio e dallo studio alla Galleria Ceribelli.
La pubblicazione Abitare l’Archivio ci aiuta a entrare più nel vivo della sua pittura. Ferroni si ricorda sia per la produzione pittorica che per quella calcografica, per la sua capacità di dipingere la “cosa”, senza fini segreti o mistificazioni, con uno stampo fenomenologico. Elio Grazioli scrive: «Non concettuale né trans né post né neo, senza essere neppure iper, la sua minuzia virtuosistica e il suo rimando fotorealistico non sono mai illusionistici fino al trompe-l’oeil, casomai giocano sull’ambiguità là dove le macchie di colore sulle pareti o sui tavoli o sui quadri rappresentati sono di fatto delle vere macchie sul dipinto stesso».
Chiara Moretti indaga invece la tavolozza di Ferroni, scrivendo: «Il grigio è da sempre il colore associato alle ombre, ai fantasmi, alle impronte delle anime che lasciano la terra». Il colore è visto come «Fatto sociale», «Prima che pigmento, onda, particella luminosa», in questo caso, il grigio equivale al vuoto come spazio di particelle corpuscolari e luce, è «Colore-non colore» (blank).
Maria Grazia Recanati, nella sua postfazione, sottolinea il ritorno alla “metapittura” «Quale reazione alla bulimia simbolica, all’oppressione di un sistema culturale troppo forte e troppo fortemente connotato sul piano filosofico, religioso, politico». La res, l’oggetto diventa quindi un alibi per parlare di pittura mentre l’atelier — che viene rappresentato spesso come soggetto nei suoi quadri — è il luogo dove la mente dell’artista può spaziare e scoprire la realtà gradualmente, a livello poetico, rivelando i punti di tangenza tra arte e vita.