A Bergamo apre l’Archivio dedicato a Gianfranco Ferroni, l’artista della Metacosa

di - 16 Ottobre 2024

A Bergamo ha inaugurato la sede dell’Archivio Gianfranco Ferroni. L’archivio si trova all’interno di Palazzo Stampa, uno degli edifici più significativi della storia della città e che prende il nome dall’ultima famiglia proprietaria, di origine elvetica.
Il presidente dell’Archivio è Arialdo Ceribelli che ha seguito per oltre 30 anni l’opera di Ferroni in qualità di amico e gallerista, sua figlia Marta è membro fondatore del consiglio direttivo, mentre il vicepresidente è Michele Maria Porro. Si aggiungono Maria Grazia Recanati, membro del comitato scientifico dell’Archivio, insieme a studiose come Chiara Gatti, Francesco Guzzetti, Nadia Marchioni.

Arialdo Ceribelli e Francesca Ferroni in Archivio

L’Archivio Gianfranco Ferroni di Bergamo punta ad avere respiro internazionale e assume i compiti di «Esaminazione, studio, valorizzazione e documentazione delle opere», di rilascio delle autentiche dopo le dovute analisi, di «Promozione e curatela della pubblicazione di documenti, saggi, cataloghi, biografie, opere letterarie e sussidi informatici». Le sue attività comprendono «Mostre, esposizioni temporanee, convegni, dibattiti e pubblicazioni finalizzate alla divulgazione e celebrazione dell’opera dell’artista». A questo scopo è stata presentata la prima pubblicazione Abitare l’Archivio, co-finanziata dalla Fondazione della Comunità Bergamasca — era infatti presente il suo presidente, Osvaldo Ranica — e curata da Elio Grazioli e Anna Chiara Cimoli, docenti dell’Università di Bergamo.

SALONE PALAZZO STAMPA

Gianfranco Ferroni, alcune note biografiche

Gianfranco Ferroni nacque a Livorno 1927, si trasferì con la famiglia ad Ancona ma nel 1944 a causa della guerra fu costretto a interrompere il suo percorso di studi – al Liceo scientifico – e a trasferirsi prima a Milano e poi a Tradate, in provincia di Varese, dove visse un periodo segnato prima dalla solitudine, poi dall’allontanamento dai genitori non propensi ad accettare la sua scelta: dedicarsi all’arte.

Gianfranco Ferroni, Lo studio Sequenza, 1974, tecnica mista su tavola, cm 73×44

Nel 1946 arrivò a Brera dove conobbe il critico Franco Passoni e nel 1952 frequentò i pittori del realismo esistenziale staccandosi così da un realismo di stampo politico e sociale: il gruppo di Mino Ceretti, Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, e Tino Vaglieri. Con quest’ultimo, nel 1956, intraprese un viaggio nelle zone più arcaiche della Sicilia che lo cambiò nel profondo, portando a dei cambiamenti poetici nella sua opera, a causa del turbamento per la soppressione ungherese e per la delusione legata al suo attivismo politico con il PCI.

Partecipò alla Biennale di Venezia nel 1958 e prese parte alla III Biennale del Mediterraneo ad Alessandria d’Egitto. Espose sia alla Galleria Bergamini di Milano che alla Galleria Galatea di Torino. Negli anni della contestazione politica perse i punti fermi. Nel 1968, nella stanza a lui dedicata alla Biennale di Venezia, decise di girare i quadri verso la parete e appese la tavolozza al chiodo. Dopo un anno, grazie all’incisione, si dedicò nuovamente all’arte. Gli anni Ottanta furono caratterizzati dall’adesione al movimento de La Metacosa, composto da sette artisti. I suoi compagni erano: Giuseppe Bartolini, Giuseppe Biagi, Bernardino Luino, Sandro Luporini, Lino Mannocci e Giorgio Tonelli.

Gianfranco Ferroni, Lo studio vuoto, 1976, tecnica mista su tela

La Metacosa era un movimento dalla forte spinta filosofica, incompreso in un momento in cui la pittura figurativa era vista come retrò e appannaggio di antiquati nostalgici. Il gruppo aveva in mente un obiettivo preciso: indagare il vero attraverso virtuosismo tecnico e pensiero, sollevando il velo di Maya e approdando all’essenza invisibile degli oggetti, «Guardare la cosa come se fosse la prima volta che la vediamo: vergine e scevra da ogni pre-giudizio».

Giunse così alla consapevolezza di voler raccontare la quotidianità ordinaria, mettendo la “cosa” al centro, dipinta senza esaltazioni e idealizzazioni (Galleria Ceribelli).
Nel 1994, la Galleria d’Arte Moderna di Bologna gli dedicò una vasta esposizione, presentata da Maurizio Fagiolo Dall’Arco, mentre del 2007 è la volta di due antologiche: a Palazzo Reale di Milano, a cura di Vittorio Sgarbi, e a Palazzo della Ragione di Bergamo, a cura di Marco Vallora.

Gianfranco Ferroni, Lettino, 1984, olio su tavola, cm 29,5x 41,3

Nel 2015, alle Gallerie degli Uffizi a Firenze, con la cura di Vincenzo Farinella, inaugura La Luce della solitudine. Gianfranco Ferroni agli Uffizi.

L’Archivio a Bergamo

Nato dalla volontà del gallerista e amico Arialdo Ceribelli, che da oltre 30 anni porta avanti un lavoro di ricerca, raccolta e archiviazione delle opere dell’artista, l’Archivio sottolinea la connessione che Gianfranco Ferroni ebbe con la città di Bergamo, eleggendola a dimora del suo studio negli ultimi 15 anni di vita. Si allontanò, infatti, da Milano che lo aveva accolto con il fermento artistico e il via-vai del Bar Jamaica, nel periodo di Tangentopoli. La sua quotidianità era segnata dagli spostamenti dalla casa allo studio e dallo studio alla Galleria Ceribelli.

La pubblicazione Abitare l’Archivio ci aiuta a entrare più nel vivo della sua pittura. Ferroni si ricorda sia per la produzione pittorica che per quella calcografica, per la sua capacità di dipingere la “cosa”, senza fini segreti o mistificazioni, con uno stampo fenomenologico. Elio Grazioli scrive: «Non concettuale né trans né post né neo, senza essere neppure iper, la sua minuzia virtuosistica e il suo rimando fotorealistico non sono mai illusionistici fino al trompe-l’oeil, casomai giocano sull’ambiguità là dove le macchie di colore sulle pareti o sui tavoli o sui quadri rappresentati sono di fatto delle vere macchie sul dipinto stesso».

Chiara Moretti indaga invece la tavolozza di Ferroni, scrivendo: «Il grigio è da sempre il colore associato alle ombre, ai fantasmi, alle impronte delle anime che lasciano la terra». Il colore è visto come «Fatto sociale», «Prima che pigmento, onda, particella luminosa», in questo caso, il grigio equivale al vuoto come spazio di particelle corpuscolari e luce, è «Colore-non colore» (blank).

Maria Grazia Recanati, nella sua postfazione, sottolinea il ritorno alla “metapittura” «Quale reazione alla bulimia simbolica, all’oppressione di un sistema culturale troppo forte e troppo fortemente connotato sul piano filosofico, religioso, politico». La res, l’oggetto diventa quindi un alibi per parlare di pittura mentre l’atelier — che viene rappresentato spesso come soggetto nei suoi quadri — è il luogo dove la mente dell’artista può spaziare e scoprire la realtà gradualmente, a livello poetico, rivelando i punti di tangenza tra arte e vita.

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