“Solo le persone buone non puzzano, i santi forse profumano”: la mostra personale di Lorenzo Modica inaugura giovedì, 11 febbraio, il Laboratorio KH, spazio indipendente rivolto ad artisti emergenti, situato nel cuore di Roma, alle spalle della storica Piazza del Popolo. Ispirato al film L’enigma di Kasper Hauser di Werner Herzog, KHLAB nasce sotto la guida di Guido D’Angelo e Fabrizio Pizzuto, i quali propongono uno spazio che è laboratorio creativo di indagine artistica, di pensiero e di analisi oltre che contenitore critico e di dialogo. Con uno spazio essenziale di 30mq, arricchito da suggestive arcate e da un’efficace pianta quadrata, il Laboratorio KH ospiterà mostre e progetti di giovani artisti, presentando uno spaccato artistico diversificato e accattivante.
Le opere di Modica abitano le pareti di KH in un allestimento mirato, generando un dialogo spaziale d’insieme eterogeneo e compatto. Le tele, le carte e la scultura presentate in mostra solo il frutto della più recente produzione artistica di Lorenzo, nate in occasione della sua residenza a Via Farini di Milano. Con ‘Solo le persone buone non puzzano, i santi forse profumano’ l’artista riflette sull’esasperata ambiguità morale della società moderna e sull’intrinseca instabilità della forma in un percorso contraddistinto dall’indagine dell’immaginario intimo e collettivo.
Abbiamo raggiunto l’artista che ci ha raccontato il processo che ha portato alla realizzazione della personale romana e del suo approccio ai materiali oltre che alcuni elementi ricorrenti della su pratica.
La tua personale romana inaugura con il titolo “Solo le persone buone non puzzano, i santi forse profumano”. Ci racconti come nasce questo titolo?
«Il titolo l’ho preso in prestito dal romanzo Althénopis di Patrizia Ramondino (Einaudi, 1981). Un paio di anni fa ho messo l’audiolibro in riproduzione, senza sceglierlo davvero. Credo che fosse semplicemente il primo dell’elenco. Una sorpresa, il testo scorreva intimo e vivido letto da Arturo Cirillo. A momenti alcuni guizzi aprivano delle visioni: “la nonna mi diceva sempre che le persone buone non puzzano; ed io, certo, buona non ero. I santi poi addirittura profumavano”.
Come fosse un detto o una profezia bislacca l’ho subito annotata, in forma simile a quella del titolo della mostra. La frase mi ha accompagnato da allora. È un monito inutile, un insegnamento vacuo. Eppure così rilevante nel modo in cui sentiamo la realtà. L’elemento corporale della puzza, così immateriale; questa forma di regola in cui viene enunciato il pensiero, che contiene la legge e il suo tarlo. È una frase carica di tutto quel portato dell’assurda e inevitabile corrispondenza tra etica ed estetica».
I materiali impiegati per la realizzazione delle opere in mostra sono molteplici, includendo tela, carta, gesso, plastica, metallo e perfino una ciocca di capelli sintetici. Come nasce il tuo interesse verso i diversi materiali e come definiresti il tuo approccio ad essi?
«Il mio è un lavoro randomico, ogni quadro è un discorso a sé. Uso i materiali che mi circondano e le cose che trovo, piccoli oggetti, ma anche immagini, di solito frammenti. Mi servono solo a trovarmi dove volevo essere, non sono veri deragliamenti. È una forma di non violenza, non voglio impormi al mondo che mi circonda. Dunque cerco di integrarmi. Accetto gli stimoli, so di filtrarli in gran parte, ma questo mi serve. Mi pone in relazione dialogica.
In questa mostra i quadri sono dipinti quasi tutti ad acrilico e vinilico su diversi tipi di cotone, ho usato anche molto la vernice spray. Uno è dipinto a terra con la pittura da muro e la polvere dello studio, usando un manichino per fare delle forme e solo successivamente montato su telaio, un altro è dipinto sul retro e il risultato è dato dalla pittura che filtra attraverso la tela, un altro ancora è dipinto su un tessuto per tovaglie. È vero che cambio spesso i supporti e le tecniche, credo che serva a tenermi in allerta e in uno spazio di scoperta; e poi, sono curioso».
Una delle caratteristiche emblematiche della tua pratica è l’uso delle sovrapposizioni e stratificazioni materiche, impiegate come veicolo discorsivo tra le molteplici opere. Puoi parlarci di questo aspetto e del dialogo che si crea tra i lavori?
«Fino a quasi due anni fa avevo una pulsione di cancellazione, che si manifestava in diverse forme. Una tensione iconoclasta. Ma accanto a questa tendenza all’obliterazione esisteva anche la ricerca di uno spazio aptico. La pittura ha molto a che fare con la tattilità, l’olfatto e la propriocezione; sicuramente nel farla ma anche nel farsi guardare. Da quelle forme che sopravvivevano alla cancellazione nei quadri del 2017-18 sono emersi i quadri più recenti in cui la cancellazione non è totale.
Ecco mi sembra che quando una cancellazione non è totale allora si tratti di una stratificazione. Sono quadri, quelli presentati in questa mostra, in cui le forme sono quasi sempre residuali, tracce di azioni e presenze rimosse (pezzi di un manichino, foglie, bottiglie, un telaio). In questo senso le cancellazioni, le stratificazioni e le allusioni a presenze altre sono elementi che accomunano le opere. Poi un motivo minimo, un colore, una concordanza o uno stridio presenti in un’opera vengono sviluppati in un’altra, instaurando dei rimandi».
La griglia è un elemento ricorrente nei lavori in mostra. Che significato assume per te?
«Sono incuriosito dalle liste, dai sistemi, dalla frustrazione del loro mettere in ordine. Credo che non ci sia bisogno di dirlo, la griglia è la più “sacra” delle istituzioni moderniste. Ieratica, inaccessibile, resistente alla narrazione, alla letteratura, al discorso, dimentica del mondo. Io come tutti ne subisco il fascino, e i miei sono tentativi di rapportarmi con questo “mito” nell’accezione di Rosalind Krauss.
In questa mostra la griglia si manifesta nella traccia lasciata dal telaio sulla tela, in Untitled (2020), un quadro che nasce dalla fragilità del fallimento; in Merende la griglia è di un tessuto per tovaglie, un oggetto che ha un potenziale di vita. La tela con la sua griglia qui funziona da filtro al quale rimangono impigliate tracce, capelli, una tavolozza, una massa bianca. In entrambi i casi la griglia io l’ho trovata, e secondariamente scelta. Mi interessa trattare in modo intimo questa struttura che resiste al dialogo, sporcarla, incrinarne il dogma. Ma non che lo faccia perché ho un programma o una filosofia da mettere in atto. Ho una naturale tendenza in questa direzione, e poi sono sensibile alle forme intorno a me; per chi vive nelle città le griglie sono onnipresenti».
Si percepisce una forte componente installativa, sempre declinata però ad un aspetto essenzialmente pittorico. In che modo bilanci queste due qualità?
«In passato ho realizzato installazioni video, ambientali e sonore; queste hanno dato luogo alla mia percezione dello spazio come un continuo. Questo punto di vista mi appartiene ogni volta che realizzo un progetto o una mostra. Pensare ad una mostra di pittura come elementi nello spazio, considerarne le interazioni, i rimandi e le connessioni. Allora la pittura abita lo spazio, lo modella e ne è influenzata. Una pittura espansa o esplosa che si estende ai muri o che si configura sul momento attraverso moduli è una forma di pittura installativa, così come il quadro ha la possibilità di suggerire, anzi di essere, la sua stessa uscita. È rilevante porsi il problema dell’uscita dal quadro oggi? Lo è forse se lo si fa in un certo modo. Penso a De Keyser che con un bordo dipinto o ancor meno con un margine tagliato apre il quadro all’intera stanza senza nominarla quell’uscita. Non nominare le cose; non è per questo che si dipinge?».
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