Adriano Altamira, Ad ala d'angelo, 2000, Palazzo Ducale
“In tutti e tre i casi il legame non è con quello che ho fatto, ma con quello che ho visto.” Così Adriano Altamira, intervistato da Flaminio Gualdoni sulla rivista Segno, a proposito del filo sottile che lega i tre principali cicli operativi caratterizzanti la sua pluridecennale ricerca: Area di coincidenza, Ice Dreams, Visti per caso. Perché Altamira è da sempre innanzitutto un voyer, in senso sia lato che letterale, uno dei più versatili discepoli della grande lezione dadaista e surrealista, prima ancora che di quella concettuale, capace di coniugare il piglio analitico di Warburg con l’estro immaginifico dei pionieri dell’inconscio.
La sua ultima personale, dislocata negli angusti e suggestivi loculi del cosiddetto “Appartamento dei Nani” sito nel Palazzo Ducale di Mantova, segna una nuova occasione per apprezzare le sue ibridazioni di codici stilistici e iconografie. Occorre innanzitutto sottolineare la sapiente orchestrazione delle opere, eterogenee nella fattura come nel periodo di realizzazione. Un saggio antologico bello e buono, oltre che un compendio del suo immaginario e della versatilità di mezzi che lo veicola. Protagoniste, in uno spazio labirintico dedicato a misteri “lillipuziani”, sono alcune reificazioni di sogni affidati alla scultura (dalla serie Ice Dreams), quindi visioni strappate al caso e immortalate in eleganti composizioni (dai Visti per caso). Non è precluso un senso complessivo del cerimoniale messo in scena senza troppo concedere all’intellegibilità, né alla teatralità. Esposti tra le nicchie e i corridoi miniaturizzati stanno lettini in terra cruda per amplessi solo allusi (La Condition Humaine, 1990-2019), ovoli dischiusi affidati alla creta (Terrecotte anni ’80 disposte in una collocazione arbitraria, 1983-1987), fiori e vegetali a metà strada tra atmosfere retrò e visioni lisergiche (Giardino Ventaglio, 1984-2018; Le sculture anni ’50, 2009-2019), i quali evocano, di concerto, amplessi e fertilità.
La parte più recondita della mostra, quella per intenderci adibita al Sancta Sanctorum, conferma che Dioniso è di casa. Sorvegliata da due marionette di sentinelle gravide di coriandoli (Mimus albus n.1 e n.2, 1981-2018) sta una pala d’altare recante l’immagine dipinta di una trivella (Pala Continua, 1967-2019), la quale trapassa non solo illusionisticamente lo spazio pittorico, alludendo a mistiche deflorazioni. Visti gli indizi che la precedono tutto, in questa mascherata senza tempo, racconta di riti orgiastici effigiati in perfetto stile metafisico, un po’ come in quelle sacre conversazioni dove tutti ciarlano a bocca chiusa. Tanto che un’Annunciazione anch’essa dissimulata, suggerita da un frammento d’ala ispirato a Pietro Cavallini ma confezionato con dei tagliandi distribuiti nelle file “d’attesa” (Ad ala d’Angelo, 2000), si coniuga ai sacra dionisiaci, in un sincretismo originale e a dir poco raffinato.
Chi ancora non conoscesse l’opera di questo protagonista della stagione concettuale italiana, che sarebbe del tutto riduttivo limitare a quegli anni, può senz’altro cominciare da questa mostra, approfondendo più avanti la sua multiforme opera di iconologia sub specie di lavori d’arte. Lascio alla concisa presentazione di Gualdoni il compito di introdurlo soprattutto ai più giovani: “Artista, storico e critico d’arte contemporanea, Adriano Altamira si forma nel fecondo clima milanese degli Anni Settanta, segnalandosi fra gli autori di spicco della generazione concettuale, conoscendo Vincenzo Agnetti e frequentando Luciano Fabro. Dagli esordi con la fotografia, alle ricerche iconiche e concettuali, Altamira ha esplorato sia il mondo delle Avanguardie che i meccanismi dell’analogia e dei collegamenti inconsci fra percezione e memoria, attraverso dipinti, installazioni, disegni e pubblicazioni, con importanti personali e rassegne internazionali.” Un maestro insomma, a cui guardare anche per verificare quanta dell’attuale produzione gli sia senza saperlo debitrice.
Roberto Ago
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