Tra gli esponenti più influenti dell’Arte informale italiana, protagonista della Scuola romana e della pittura sperimentale del Dopoguerra, ad Afro Basaldella è dedicata una mostra in esposizione alla SETAREH Gallery di Düsseldorf. Si tratta della prima personale in Germania dell’artista nato nel 1912 e morto nel 1976, dopo le importanti esposizioni alla Neue Nationalgalerie di Berlino, al Kunstverein di Amburgo e alla Kunsthalle di Darmstadt alla fine degli anni ’60, e al Matildenhohe a Darmstadt nel 2002.
Più recentemente, le sue opere sono state esposte alla Biennale di Venezia di quest’anno con la retrospettiva “1950-1970 Dall’Italia all’America e Ritorno” a Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna. Oggi i dipinti dell’artista si trovano in molte importanti collezioni pubbliche e private: tra cui il Museum of Modern Art e il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, il Centre Pompidou di Parigi, la Pinacoteca di Brera di Milano, la Tate Modern a Londra e alla Neue Nationalgalerie di Berlino.
Concepita in stretta collaborazione con la Fondazione Afro Basaldella, la mostra rappresenta da una parte un unicum, dall’altra una tappa di un percorso definito. Se il focus infatti è centrato su una selezione di dipinti su tela e carta, in particolare degli anni ’60, esposti al pubblico per la prima volta, la presentazione prosegue tematicamente le mostre già promosse da SETAREH, “DEPARTURE FROM THE SURFACE – The Invention of Italian Modernism” (2015), “A Gesture of Conviction – Women of Abstract Expressionism” (2018) e “Art of Another Kind – A new Approach to Postwar Abstraction” (2021), incentrate sull’arte realizzata dopo 1945 inquadrata come un decisivo fenomeno internazionale del postmodernismo.
«Volevo davvero che la realtà si identificasse con il dipinto e che il dipinto diventasse la realtà del sentimento, non la sua rappresentazione», così si esprimeva l’artista, in una intervista. A inquadrare la ricerca e la biografia di Afro nel contesto storico e artistico, un approfondimento di Marco Meneguzzo, critico d’arte, curatore indipendente e docente di Storia dell’Arte Contemporanea e di Museologia e Gestione dei Sistemi Espositivi all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano.
«La generazione di Afro, dunque, per giungere all’Informale, ha dovuto liberarsi della figura, procedendo per gradi successivi, ben visibili – nel nostro caso – nelle opere dal 1945 al 1951 quando Afro passa dal dichiarato Postcubismo a qualcosa di più segnico, più morbido, quasi onirico, in cui ancora resiste una memoria della figura che si va fondendo con gli oggetti e con lo sfondo», spiega Meneguzzo.
s«Erano anni in cui chiunque avesse avuto a che fare con la cultura d’anteguerra, era moralmente obbligato a fare i conti con quei valori, che si erano trascinati dietro forme e linguaggi di per sé non ideologici, ma che lo erano diventati una volta adottati dalla cultura ufficiale del regime fascista: il sintomo del rinnovamento radicale viene o dall’adesione all’astrazione geometrica, o dall’adozione di modi espressivi cubisteggianti, di quel Postcubismo più legato alla vicenda personale di Picasso che alle soluzioni spaziali simultanee proposte dalla tendenza storica», continua il critico d’arte, che individua il turning point di Afro in un evento preciso: «Il momento fondamentale, invece, sarà negli otto mesi trascorsi negli Stati Uniti, dal 1950 al 1951, primo dei suoi tanti soggiorni in Nord America. Va ricordato che erano pochissimi gli artisti italiani che in quegli anni optavano per New York, invece che Parigi (tra questi, ricordiamo Piero Dorazio e Toti Scialoja, oltre che l’osannato Marino Marini): si riteneva infatti che il respiro internazionale fosse ancora appannaggio della capitale francese, quando invece i fermenti culturali – e soprattutto i capitali destinati alla cultura – erano già stabilmente al di là dell’Oceano».
Fondamentale, dunque, la condivisione di un contesto fortemente connotato: «Una rete di galleristi, molti dei quali con ascendenze italiane (come Catherine Viviano, che ha molto contribuito alla fortuna di Afro, o il famosissimo Leo Castelli) accoglievano di buon grado ciò che veniva dall’Europa, sia perché l’arte europea era ancora considerata la matrice di ogni altra espressione, sia per riallacciare i rapporti con un continente distrutto dalla guerra, sia per le proprie ascendenza europee (basti ricordare l’opera di Pierre Matisse, ad esempio, o di Curt Valentin, o ancora della stessa Peggy Guggenheim, che si era “nutrita” di Europa). In questo contesto la figura, la cultura e l’arte di Afro trovano un terreno fecondo perché l’artista, che ora ha trentotto anni, è ancora in una fase in cui il suo linguaggio è aperto al mondo, e al contempo ha già maturato una propria sapienza pittorica».
In ogni caso, per Afro, «solitario con una miriade di amici», rimane fondamentale il rapporto con una certa idea di classicità che, secondo Meneguzzo, lo accomuna a Burri e Fontana, «Tra i pochi che hanno raggiunto un duraturo successo internazionale, e per la medesima ragione: incarnano la bellezza dell’armonia, la perfezione formale, la sapienza compositiva, nella convinzione che l’arte debba essere questo e nient’altro che questo, che non si debba appoggiare a nessuna stampella concettuale, ideologica, politica, narrativa».
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