Il corpo come strumento destabilizzante, una complessa struttura fisica, organica, meccanica, che lascia tracce replicabili n forme inaspettate, ravvisabili in materiali eterogeni, più o meno concreti. Ma soprattutto, il corpo come Indispensabile. Questo il titolo della mostra di Giovanni Morbin, visitabile dal 26 gennaio negli spazi del Museo Civico Archeologico di Bologna, in occasione della 12ma edizione del programma di ART CITY. Curata da Daniele Capra, la mostra si estende nella sala dedicata alle mostre temporanee e nella sezione preistorica, scandita da una cinquantina di lavori di natura scultorea e documentativa realizzati dalla metà degli anni Ottanta a oggi, oltre che da nuove performance realizzate da Morbin per l’occasione.
Nato a Valdagno, Vicenza, nel 1956, Giovanni Morbin si diploma all’Accademia di Belle Arti di Venezia dopo aver seguito il corso di pittura nel laboratorio di Emilio Vedova. Dalla fine degli anni Settanta la sua ricerca è legata allo studio del comportamento, approfondito attraverso performance agite in prima persona e da opere di natura scultorea, che spesso assumono la forma di oggetti funzionali assurdi.
Le sue opere e le sue azioni sono state esposte in sedi come Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia, Galerija Vžigalica di Lubiana, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Museo di Villa Croce a Genova, Quadriennale e MACRO a Roma, Museo Marino Marini di Firenze, Cabaret Voltaire a Zurigo, Centrale Fies a Dro, Museo MAGA di Gallarate. Attualmente vcive e lavora a Cornedo Vicentino. La mostra bolognese è l’appuntamento più recente di una serie di progetti espositivi in Austria, Slovenia e Italia, a rappresentare la più ampia ricognizione mai dedicata alla sua ricerca.
Indispensabile nasce dalla fascinazione di Morbin per alcuni dei reperti archeologici conservati nel Museo Civico Archeologico di Bologna e, in particolare, per gli attrezzi e gli strumenti che l’uomo ha pensato e realizzato, sin dalla preistoria, per espletare le differenti necessità che via via si sono presentate. La mostra fornisce un focus sui lavori dell’artista dotati in maniera paradossale di funzioni che non rispondono però a necessità di ordine pratico, come di solito accade con gli utensili, quanto invece a finalità di natura espressiva.
Della sua ricerca e della mostra, ce ne parla lo stesso Morbin, in questa conversazione con Simone Mengoi, critico e curatore d’arte contemporanea, direttore di Arte Fiera a Bologna.
Il tema centrale della mostra Indispensabile al Museo Archeologico è quello di “strumento”. Per essere più precisi, dell’opera d’arte come strumento, utensile, attrezzo per compiere un’azione concreta, sia essa eseguita dall’artista o dal pubblico. È un tema centrale nel tuo lavoro. A che punto del tuo percorso artistico è emerso?
«Avevo bisogno di legittimare scelte e azioni che, riversate nel contesto del quotidiano anziché quello artistico, rischiavano d’essere viste come bizzarre. Io stesso sentivo l’esigenza di contestualizzare il mio agire, non fosse altro che per evitare di sembrare lo strambo del villaggio, una macchietta di paese».
In quale modo?
«In quel momento pensai che ogni qualvolta la società riconosce un comportamento come utile e necessario alla crescita della società stessa, quest’ultima produce, perfeziona e registra una varietà di oggetti che avvallano e favoriscono le azioni in questione. La sola esistenza di un attrezzo giustifica l’azione per la quale l’attrezzo esiste. Nel corso del tempo ho trovato diversi compagni di gioco che mi hanno fatto sentire meno solo nel percorso scelto e, contemporaneamente, mi hanno dato anche la forza per sostenere decisioni per me poco remunerative».
Qual sono stati i primissimi lavori che hai realizzato in questo spirito?
«Le prime opera-zioni fondanti per il mio lavoro sono state Guanti, realizzati nel 1984, costituiti da bozzoli di filo di ferro piegati per fasciare e stancare le braccia in modo che non avessero più forza residua per continuare a dipingere. E un anno dopo Progetto per la costruzione di una strada, un lavoro letteralmente “fatto coi piedi”, concepito per rimpiazzare l’immobilità delle braccia fiaccate dai Guanti. Negli stessi anni Macchina per parlare da solo è un’opera prodotta appositamente per legittimare un senso di solitudine esistenziale, mentre Peso forma estende l’idea di lavorare coi piedi nell’intento di modellare la Terra per effetto del proprio peso».
In quale contesto si situano?
«Si tratta di progetti che hanno caratterizzato quel presente, nei primi anni Ottanta, anche nella scelta di rimanere in provincia, contesto ricco di contraddizioni utili alla mia ricerca. E proprio rispetto a questo vorrei citare Progetto per la costruzione di una strada, che sottintende a una pratica per poter fare strada, per diventare qualcuno, ma ho scelto di farlo nella desolante solitudine di un luogo decentrato. Situazione in cui non resta che fare strada, letteralmente, ovvero di andare da A fino a B e viceversa, più volte, fino a quando la traccia del passaggio appare, diventa segno. Un segno che scompare subito dopo la fine dei passaggi e la ricrescita dell’erba».
Da quelle prime prove a ora, qual è stata l’evoluzione dell’idea di strumento, di opera come strumento, nel tuo lavoro?
«Le prime opera-zioni contenevano un sapore esistenziale, come fossero una sorta di training autogeno utile e necessario a sostenere il rigore delle mie scelte. In un secondo momento sono diventato più consapevole nel dover affermare una pratica e un modo di condurre le mie azioni, una forma di comportamento».
Vedo un collegamento non esplicito, ma forte, fra l’idea di opera-strumento e la serie delle Ibridazioni, nelle quali cerchi di creare una relazione intima e non gerarchica con un essere appartenente a un altro ordine naturale: una pietra, una pianta, un edificio, eccetera. Il rapporto con lo strumento, dalla selce scheggiata fino all’intelligenza artificiale, non è mai neutro. L’uomo è trasformato dallo strumento tanto quanto trasforma il mondo grazie a esso. Nelle Ibridazioni questa trasformazione, questo uscire da sé e diventare altro, è esplicitamente tematizzata, e forse auspicata. È corretto?
«Le nostre azioni irrompono nel quotidiano, ma sono spesso anche una replica al quotidiano che ci invade, che ci penetra e ci lascia in ogni momento l’evidenza e la traccia di questo incontro. C’è nelle mie azioni il tentativo di mostrare al mondo la costituzione interna, ma anche di lasciare che il nostro dentro osservi il mondo. In questo doppio senso di marcia c’è uno sguardo che si incrocia senza che una delle traiettorie prevalga. Dopo ogni azione non si è più la stessa persona e forse anche chi si accorge di queste azioni se ne torna a casa diverso interrogandosi per ciò che ha visto. Le Ibridazioni non sono eventi spettacolari, ma si insinuano nel quotidiano mentre tutto ciò che ci circonda continua normalmente. Può anche accadere che qualcuno non si accorga di ciò che sta succedendo…».
In che modo, nella mostra, le tue opere dialogano con i manufatti della collezione del Museo Archeologico di Bologna?
«Evidentemente esiste una relazione tra i reperti esposti al museo, che illustrano archetipicamente la fabbricazione di alcuni strumenti, e il mio lavoro. L’intrusione nella realtà museale avviene anche tramite il ricorso all’imprevisto e all’accettazione della svista. Si generano così situazioni ibride e le condizioni con cui cerco di dialogare nel luogo che mi ospita. È come se alcune voci giungessero inaspettatamente da sopra, espandendosi negli spazi neutri della mostra».
Il testo completo della conversazione sarà incluso nel catalogo, di prossima pubblicazione, con le immagini dell’allestimento e con i testi di Daniele Capra e Denis Isaia. Visitabile fino al 25 febbraio 2024, la mostra di Giovanni Morbin è realizzata in collaborazione con Settore Musei Civici Bologna | Museo Civico Archeologico, con il supporto di Galerie Michaela Stockal.
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