Fino al prossimo 22 ottobre da Quartz, a Torino, è in corso la personale di Alessandro Roma (Milano, 1977). Il titolo della mostra, “The whisper of the peacock becomes a snake”, è già un piccolo racconto molto evocativo, che rimanda alla mente paesaggi esotici, simbolismi suggestivi e narrazioni di paesi e tempi lontani.
L’esposizione è corredata da un testo critico di Irina Zucca Alessandrelli ed è costituita da un progetto site specific, pensato dall’artista appositamente per l’occasione. Il progetto si compone di due tele di grandi dimensioni, che sono appese alle pareti al modo di antichi arazzi rinascimentali, cui si aggiunge un lavoro scultoreo in ceramica e una stampa xilografica.
Come sempre da Quartz, la mostra è curata scrupolosamente in ogni dettaglio, e anche l’allestimento, pur nel piccolo spazio, appare ritmato da una geometria molto studiata, fatta di volumi simmetrici e riflessi armonici. L’atmosfera evocata dalle opere esposte non è, poi, a sua volta priva di rimandi storico artistici variegati, che vanno dall’esotismo decadente di Henri Rousseau, fino alle fantasticherie fiorite di psichismi alchemici di Ontani, passando per lavori più recenti, come per esempio quelli di Alice Visentin. È però soprattutto l’idea dell’arazzo rinascimentale, dove a simboli neoplatonici si intrecciano elementi naturalistici e significati simbolici più o meno esoterici, che può aiutare a comprendere questi lavori.
In un caso, pavoni dalle code fatte di occhi vigili e spalancati, trasformano sé stessi e i loro sospiri in serpenti sinuosi, pronti a rincorrersi in un movimento potenzialmente infinito, arrotolandosi attorno al proprio centro come l’alchemico uroboro.
Altrove, forme naturalistiche dai colori vivaci scivolano mutando direzione, fino di nuovo a creare un vortice, ma per poi spalancarsi sull’azzurro di un cielo illuminato da un sole chiaro e acceso.
Sempre, le opere fanno venire in mente mondi esotici e paesi lontani, ma questo loro richiamare paradisi più o meno tropicali è da intendersi non tanto al modo del racconto di un viaggio avventuroso. Ciò che interessa l’artista è infatti, qui, piuttosto il mondo interiore, il quale si fa sì oggetto di un viaggio, ma da compiersi in un universo fatto di simboli, sogni e allucinazioni.
Ogni immagine e forma si presta, allora, ad essere interpretata così come si interpretano i sogni, perché è il mondo dell’inconscio, con il suo modo simbolico di significazione, quello che vediamo dispiegarsi sotto i nostri occhi.
Sempre, come accade per il già citato uroboro tanto caro agli alchimisti, gli elementi faunistici e naturalistici appaiono tutti connessi in una sorta di danza che è anche una mutazione reciproca. Ogni elemento si muta nell’altro, accendendo ogni volta nuovi colori e forme, insieme con le sinestesie che la complessità del lavoro nel suo complesso di volta in volta lascia indovinare. Dalla coda del pavone emergono, così, inattesi, occhi intenti a scrutare, molteplici e attenti, i mutamenti in atto, sorvegliando ogni loro più piccolo passaggio o alterazione cromatica e formale.
Il tema della rinascita e della trasformazione diventa, in tal modo, la vera chiave di lettura dell’intero progetto, dove il costante alludere ad altro da sé di ogni forma e figura ritratta, in una tensione/crasi di elementi orientali e occidentali, misticheggianti e naturalistici, colma le opere di un’affascinante profondità, che intuiamo abissale.
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