Quale immagine possediamo di noi stessi e in cosa si trasforma quando varchiamo la soglia del virtuale? Fino al 7 settembre, lo spazio espositivo bolognese Adiacenze ospita “Tecnocopia”, progetto di Alessandro Sambini a cura di Andrea Tinterri e realizzato con la collaborazione del corso AMaC dell’Università di Bologna. Nella sua opera – presente in uno spazio accessibile in VR – Sambini ha scelto di convertire una fotocopiatrice virtuale in un mezzo fotografico messo a disposizione dei visitatori, utilizzato per indagare il concetto di identità e il suo mutare in quella zona grigia tra realtà e metaverso. Il risultato è un archivio aperto di volti, ottenuto dalle scansioni individuali del pubblico incrociate alle elaborazioni di un’intelligenza artificiale.
Viviamo in un mondo ibrido: la compenetrazione continua e inevitabile tra reale e virtuale produce sempre una collisione di percezioni. La ricerca di Sambini – servendosi della tecnologia VR – si colloca in quel sottile “passaggio di stato” tra ciò di cui facciamo esperienza concretamente e il suo alter ego nel metaverso. Se mi trovo in una stanza uguale a quella in cui sono ma virtuale, qual è il rapporto tra le due? Prima di indagare la forma instabile dell’identità dell’individuo, infatti, Tecnocopia si interroga sulla percezione dell’ambiente virtuale. Visore e controllers consentono l’accesso a quella che è sia una pura rappresentazione visiva dello spazio, sia l’unico luogo dove esiste davvero l’esposizione: l’Ocolus contiene l’intera mostra come una sorta di capsula spazio-temporale. Nel metaverso ogni cosa è una proiezione della realtà, una sua copia ma priva di concrete funzioni: il tetto di una casa esiste – perché lo vediamo – ma non ci ripara davvero, le macchine non ci investono, il fuoco non ci scalda. In altre parole, un intero mondo fatto di pura forma e possibile solo nell’esperienza consapevole del singolo. Specchio di questa realtà, Tecnocopia avvicina il virtuale alla caverna di Platone: pur essendo l’ombra del mondo, la sua capacità immersiva disorienta i sensi fino a mescolare ciò che sappiamo con ciò che vediamo.
In questo punto cruciale della riflessione, l’opera di Sambini inserisce l’esperienza dell’Io. Infatti, nella realtà virtuale anche la nostra identità si trasforma: mancando la corporeità, siamo chiamati a “farci proiezione” attraverso la profilazione, costruendo utenti e avatar a nostra immagine e somiglianza per ricostruire quella fisicità perduta. In “Tecnocopia”, quest’azione si traduce nella creazione, da parte dello spettatore, di una propria auto-replica ottenuta tramite la fotocopiatrice presente nel metaverso, usata come vero e proprio strumento identitario. Nello spazio espositivo si vanno così a sommare i volti del pubblico, rielaborati e restituiti dall’intelligenza artificiale.
Come un’intima scoperta, la forma evanescente che assumiamo nella realtà virtuale riacquista visibilità grazie all’azione fotografica: siamo davanti ad una nuova e ibrida epifania dell’ego. La necessaria solitudine del visitatore nella fruizione di Tecnocopia è capace di mettere in luce, se vogliamo, quella modalità implicita con cui facciamo esperienza della realtà: che si tratti del mondo aldilà o aldiquà del visore, tutto ciò che possiamo conoscere si costruisce a partire dalla nostra percezione.
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