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Alla ricerca delle orchidee: il progetto di Silvia Cini arriva a Budapest
Arte contemporanea
Celebrate da Proust nella Recherche e considerate da Guy de Maupassant “esseri prodigiosi, inverosimili, figlie della terra sacra, dell’aria impalpabile e della calda luce”, le orchidee ammaliano con le loro corolle dai colori sgargianti, striati, maculati, quasi ipnotici. Nell’Ottocento i cosiddetti cacciatori di orchidee, come John Gibson o William John Swainson, rischiarono la vita per recarsi in India o in Brasile e importarne varie specie in Europa, dove erano considerate delle rarità esotiche. In realtà, però, le orchidee crescono spontaneamente anche in Italia, sebbene i più lo ignorino. A tali fiori è stata da poco dedicata una mostra presso l’ELTE Botanical Garden di Budapest, risultato dell’affascinante progetto artistico “Avant que nature meure” di Silvia Cini che, per l’appunto, ha voluto trascendere l’esotismo per esaltare invece le valenze sociali di queste piante tanto misteriose quanto speciali. L’esposizione nella capitale ungherese si è articolata come un itinerario site specific tra foto, dati, installazioni audio-ambientali, sculture in rame realizzate con la tecnica della galvanoplastica in auge nei musei di storia naturale mitteleuropei, nonché una performance documentata da un video.
L’artista ha raccontato a exibart che tutto è iniziato in maniera casuale, quando due amici le hanno regalato in concomitanza lo stesso libro di Enrico Coleman, il maggior pittore paesaggista della Roma dell’Ottocento, che, esplorando l’Urbe e la campagna circostante, aveva individuato e catalogato vari esemplari di orchidee spontanee. Silvia Cini si è sentita chiamata a proseguirne la missione. Così, l’ha ricontestualizzata nel presente per attuare una profonda riflessione sulla resilienza della natura di fronte all’antropizzazione del territorio. Nel constatare l’inesorabile riduzione delle orchidee spontanee rispetto a un tempo, l’artista si è riproposta di generare una consapevolezza collettiva, per preservare gli spazi che la natura riesce ancora a ritagliarsi con fatica. Non per nulla il progetto artistico Avant que nature meure evoca nel suo nome una frase dello scienziato francese Jean Dorst, tra i padri della tutela dell’ambiente: un invito alla riconciliazione dell’essere umano con la natura.
Silvia Cini ha avviato la sua ricerca ben otto anni fa. Con un approccio all’avanguardia, tuttavia, aveva già iniziato a focalizzare il suo interesse sul paesaggio come metafora sociale fin dai primi anni ’90, ben prima che il termine “sostenibilità” andasse tanto di moda. Una vera pioniera, insomma, da sempre appassionata a questi temi.
Come le orchidee tropicali, anche quelle che si trovano qui nella zona temperata sono organismi simbionti, in particolare nei confronti di determinati funghi con cui instaurano delle relazioni di mutuo scambio per la reciproca sopravvivenza. In tal modo, fioriscono nelle zone interstiziali dei luoghi urbani, riproducendo forma e colore degli insetti con cui interagiscono. Sorge spontaneo chiedersi cosa faccia invece l’uomo per vivere in armonia con l’ecosistema di cui fa parte.
La mostra a Budapest è stata organizzata grazie al supporto dell’Italian Council, di cui Silvia Cini ha vinto l’XI edizione. Per tale exhibit, l’artista ha preferito evitare ogni colonialismo culturale. Invece di limitarsi ad esporre all’estero le sue indagini sul territorio nazionale, le ha ampliate in loco attraverso workshop con le scuole, in collaborazione con The Hungarian Garden Heritage Foundation. Ha inoltre avviato una rete di ricerca universitaria attraverso una partnership fra il Museo Orto Botanico dell’Università La Sapienza di Roma e l’altrettanto prestigioso ELTE Botanical Garden di Budapest, alle cui biologhe l’artista ha voluto rendere omaggio con una performance ispirata ad elementi folkloristici locali.
I Matyò sono un gruppo etnico della fascia del Danubio. La loro lingua è venuta gradualmente a perdersi. In un contesto culturale patriarcale, il ricamo floreale era una forma espressiva per le donne Matyò, che decoravano il loro futuro corredo attraverso un’interiorizzazione del paesaggio. Un po’ come oggi le biologhe si prendono cura del corredo genetico dei semi che intendono preservare per il domani. Con un parallelismo fra la tutela della diversità culturale e la difesa delle biodiversità, il ricamo Matyò è stato quindi utilizzato per ricamare delle orchidee su un camice simile a quello delle biologhe dell’ELTE, indossato poi da una ballerina in una performance ispirata alla danza tradizionale Matyò, di cui rimane traccia in alcuni filmati dell’Istituto Luce risalenti ai primi del Novecento.
L’esposizione ungherese è stata solo un primo step, a cui farà seguito una serie di mostre, eventi ed open call per tutta Europa. Ad esempio, in collaborazione con Careof – l’organizzazione non profit per l’arte contemporanea con sede all’interno della Fabbrica del Vapore – in ottobre è previsto a Milano un incontro di approfondimento e confronto con altri artisti, fra cui Stefano Boccalini, per citarne uno. Ci sarà anche la release di una piattaforma digitale con tanto di mappa, oltre a podcast, video e contenuti di vario tipo, realizzati insieme a botanici, urbanisti, artisti e sociologi. Inoltre, in una dimensione partecipativa, i cittadini saranno coinvolti nel progetto artistico tramite osservazioni sul campo e saranno inoltre invitati a condividere le foto delle orchidee incontrate in città. “Avant que nature meure” si concluderà infine a Roma nella primavera 2024, con una mostra negli spazi del Museo Orto Botanico. Una meravigliosa iniziativa, di cui vale la pena seguire gli sviluppi futuri.