“L’ipotesi più a portata di mano è che le epoche che tendono ad un’espressione allegorica abbiano esperito una crisi dell’aura” considerava Benjamin col suo consueto piglio oracolare, nei «Passages» di Parigi.
C’è un’artista che a questa crisi risponde con gesto materico, tinto di sangue e di lustro corallino insieme: è Jan Fabre (Anversa, 1958), che alla Galleria Mucciaccia di Roma e, dall’11 ottobre nelle sedi di Londra e di Singapore, inaugura la mostra “Allegory of Caritas. An Act of love”, prorogata fino al 14 gennaio 2023.
L’esposizione romana, a cura di Melania Rossi, vede un’infilata di sculture di corallo minuziosamente assemblate, di cui il maestro belga già presentava spettacolosi modelli alla mostra “Oro rosso” di Napoli del ‘19. Filosofia, scienza, religione, mito, esoterismo, sono a convegno in una tensione verso il concetto universale di Carità. L’allegoresi è un antidoto espositivo di cui l’arte fabriana si serve per svelare le distanze prese dal tutto unito del simbolo cultuale. Emerge la spiccata volontà di esplicare in vividezza la frammentarietà dell’esistenza.
Caritas da ciò che è buono e caro. Nulla di più caro di una statua in corallo, nulla di più caro del sangue umano. Che si alluda alla Passione del Cristo o alla formazione ecografica del figlio Django Gennaro, omaggiata in decine di disegni realizzati con matita hb e sangue d’artista in acquerello. Cara è a Fabre la tecnica dell’emo pittura, sperimentata già dagli anni settanta e desunta dagli avi fiamminghi, che all’occorrenza adoperavano, in aggiunta, polvere d’ossa.
Vertiginose tradizioni artistiche nordiche che, grazie all’allaccio cromatico, sposano la storia mediterranea del corallo. Dai cornetti apotropaici del meridione alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, il cui bambino Gesù porta al collo un ciondolo corallino, monito sanguigno del futuro sacrificio.
L’estro artistico di Fabre oscilla perennemente tra un’anima barocca e un fremito estetico scarno, algido.
L’artista non dimentica le Metamorfosi ovidiane, che vedono il corallo generarsi dalla testa stillante di Medusa decollata. Una scultura corallina assume le forme del tridente di Nettuno, che della fanciulla, poi gorgone, fu amante. Ma Fabre riporta anche filoni di iconografie boreali: è il caso del pellicano che si becca il petto sacrificando sé stesso per nutrire i piccoli.
Per quanti cuori anatomici sormontati da croci in corallo vi siano lungo il percorso, la scultura allegorica dell’artista resta laica, come lo fu suo padre a dispetto della madre cattolica. Laica e malgrado ciò, non indifferente ad un anelito di grazia. “Sono ateo grazie a Dio” ripete spesso Fabre in un motto nel quale, per assurdo, l’Ulteriore non si licenzia affatto.
Ogni opera racchiude misteri e racconta anche di quella lontana e sparsa via del corallo che i commerci d’oriente segnarono in sottoparlato, a spiegare presenze di coralli persino nelle remote regioni himalayane.
Di grande rilievo sono i corallini teschi di vanitas, visti dall’artista in ottica più sciamanica che rinascimentale. Crani di corallo dall’aspetto socievole, decorati con roselline e tessere scarlatte in profusione. Allegorie del ciclo vitale.
Come Benjamin affermava, nel trionfo dell’emblematica barocca il teschio è allegoria di una salvazione, sebbene non definitiva.
Ogni forma ha in Fabre un doppio di cui tenere sempre conto. Il carattere fatale-autentico dell’opera è prediletto alla sua saturazione auratica e la scelta d’uso del corallo, organismo vivente e pietra dura insieme, ne è la prova.
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