In un edificio bianco alle falde del Vesuvio, si importa, si lavora e si esporta il corallo rosso. E, in una vasca d’acqua marina, lo si può anche vedere vivere. Ha dei contorti rametti rossi che sono il corpo duro, cioè lo scheletro, di colonie di animali minuscoli che, simili a una trasparente bambagia, gli si agitano intorno. Nelle sale vicine, gli artigiani lo tagliano a forma di perle, di foglie, di rose e di cornetti, che formeranno gioielli e artistiche sculture. Sono venuta qui per conoscere dove e come sono nate le opere in corallo rosso di Jan Fabre, polimorfico artista belga, nato ad Anversa nel 1958, scultore, pittore, coreografo, regista, performer e ancora altro. C’erano già state dieci sue opere di corallo nella mostra “Oro Rosso”, da aprile a settembre 2019, nel Museo di Capodimonte. E ora, a Napoli, ce ne sono altre quattro e vi resteranno per sempre, nella Cappella del Pio Monte, dove peraltro Fabre aveva già mostrato alcune sue opere, nel 2017.
Tra le altre opere, a Capodimonte, composte dai verdi gusci lucenti di un’enorme quantità di minuscoli scarabei, c’erano state una spada, simbolo di forza e di coraggio, e un enorme logo delle Ferrovie del Congo Belga, che sintetizzava la conquista di quella terra e dei pigmei che la abitavano. E poi, nello Studio Trisorio, c’era stata una serie di sculture di cervelli umani, con le loro bianchicce circonvoluzioni, considerate la sorgente, scientificamente ubicata, del pensiero.
Quest’anno, invece, le nuove opere di Fabre mostrate nella Cappella del Pio Monte a Napoli sono di rosso corallo e dicono che il luogo del corpo da cui sorge l’anima umana non è il cervello ma il cuore. Un cambiamento notevole. Una trasformazione avvenuta soltanto per caso? Sembra che Fabre avesse già sentito parlare del corallo napoletano da Sylvain Bellenger, il Direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte. Ma poi era stato Gianfranco D’Amato, l’imprenditore collezionista, appassionato d’arte e profondo connaisseur, ad accompagnarlo nell’antico laboratorio, nato nel 1894, alle falde del Vesuvio, per fargli conoscere il suo grande amico Vincenzo Liverino, l’attuale proprietario dell’azienda, una figura straordinaria di imprenditore, artista, maestro e collaboratore di artisti, che a Fabre avrebbe insegnato il mestiere e suggerito l’arte del corallo.
E Fabre conosceva bene anche la cappella del Pio Monte, perché vi aveva collocato in mostra una sua scultura, L’uomo che sorregge la croce, un autoritratto interessante non solo per i suoi significati simbolici, ma anche per l’artistica realizzazione di una posizione di equilibrio, durante un movimento precario. E in proposito, non so perché, mi viene in mente una scultura di Vincenzo Gemito, L’acquaiolo, che pure realizza un perfetto equilibrio durante un movimento instabile.
Forse, l’artista belga, intento in questo periodo a cercare di comprendere l’identità napoletana e il suo caldo sentire, può essere accostato a Gemito che, in questi mesi, in mostra a Parigi, è detto “Le sculpteur de l’ame napolitaine”.
Entrambi avevano dato prove di apparente pazzia, sia Gemito che Fabre, il quale, nel 1981, volle rimanere chiuso, per 72 ore di fila, nella Galleria Odessa, a Leyda, per dipingere dovunque, incessantemente. E ora l’immagine della corrucciata Medusa di Gemito, che negli arricciolati capelli e negli avvoltolati serpentelli sembra esprimere l’intricato pensiero dello scultore napoletano, mi fa venire in mente gli attorcigliati rametti di corallo di Fabre. E il corallo rosso vesuviano, nato dal mare, ha, secondo i miti dell’antica Neapolis, l’energia esoterica del sangue sgorgato dalla testa della Medusa sgozzata da Perseo che, dedicandola a Poseidone, la buttò nel mare.
E una magica energia, quella dell’arte, è nelle quattro opere, quattro cuori di corallo, che Jan Fabre ha dedicato alla sacra Cappella del Pio Monte, dove hanno trovato posto in quattro nicchie che, ancora vuote, sembravano stare lì apposta ad aspettarle. Queste opere esprimono un sentimento profondo, sentito usque ad medullas, fin nelle visceri, perché viene dal cuore. Ognuna è composta da elementi che, partendo dal cuore, tendono con slancio verso l’alto.
Sono state donate al Pio Monte, insieme a Jan Fabre, da Gianfranco D’Amato e Vincenzo Liverino, in memoria dei loro genitori Salvatore D’Amato e Basilio Liverino. Anche questo è stato un atto d’amore.
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