La morte è una realtà ineludibile. Nella contemporaneità, il dolore appare come uno strumento desueto: figli di un paradigma iniziato con la società biopolitica, teorizzata da Michel Foucault, neghiamo incessantemente la sua esistenza in favore di un nuovo regime palliativo, basato sull’analgesia, come ha indicato Byung-Chul Han nel suo saggio La società senza dolore (Einaudi, 2021). L’intera opera di Sophie Calle, forse, può essere identificata nella riscoperta di questo fantasma che tormenta incessantemente la nostra vita. Nella mostra À toi de faire. Ma mignonne l’artista celebra i 50 anni dalla morte di Picasso intrecciando la sua narrazione, estremamente personale. Occupando completamente i quattro livelli del Musée Picasso di Parigi, l’esposizione, aperta dal 3 ottobre 2023 al 7 gennaio 2024 e curata dall’artista e da Cécile Godefroy, obbliga lo spettatore a riflettere sull’atto stesso del vedere e sulla necessarietà del dolore.
L’artista introduce il percorso espositivo con la serie Les Picasso Confinés in cui fotografa le opere di Picasso, presenti nel museo, completamente imballate. Nel ricordo del periodo pandemico, accompagna lo spettatore in una visita durante la chiusura degli spazi. Occlude volutamente la vista delle opere lasciando il visitatore libero di immaginarsele basandosi sulla propria esperienza e conoscenza. In una sala laterale, allestisce una sorta di micro-mostra con i più grandi nomi dell’arte contemporanea, ciascuno con una singola opera – tra cui Christian Boltanski, Nan Goldin, Maurizio Cattelan, Elmgreen & Dragset e Louise Bourgeois. Presente anche il ciclo Les Picasso Fantômes, in cui l’artista espone le descrizioni delle opere di Picasso prodotte dai visitatori che le hanno osservate: «Un museo Picasso senza Picasso. O quasi. Solo il suo sguardo veglia sull’esposizione», cita Calle. L’allestimento copre le pareti delle sale con pesanti teli grigi su cui è proiettato il testo.
Al livello superiore, una riflessione più ampia sull’atto stesso del vedere: il ciclo Les Yeux Clos, sulla condizione della cecità. L’artista chiede ai ciechi di descrivere verbalmente diverse situazioni: l’ultima immagine che hanno visto, un colore specifico, una specifica opera d’arte – cui Calle accosta una fotografia della parete, presso la quale l’opera è esposta, senza l’opera, di cui è rimasta solo la cornice. Nella serie Parce que, sovrappone a delle fotografie un telo, che i visitatori possono rimuovere, su cui viene indicata l’origine poetica dello scatto. In Voir la mer, l’artista accompagna delle persone che non hanno mai visto il mare ad osservarlo, catturandone le reazioni: un’opera intima in cui commozione, tristezza, gioia e timore si ibridano nello sguardo dei soggetti filmati. La mancanza di esperienza è paragonabile a una cecità acquisita, sociologicamente e antropologicamente connotata.
Al terzo livello, la negazione si trasforma nell’impossibilità di vedere oltre la natura dell’esistente. Calle ripercorre la morte dei genitori, che aleggiano come spettri tra oggetti, immagini e scritti. La paura della morte ossessiona l’immaginario dell’artista, che sembra essere costantemente perseguitata dalla massima proustiana per cui «La morte può arrivare questo stesso pomeriggio». Per questo, in un delirio assolutamente conscio, l’artista chiede alla casa d’aste Hôtel Drouot di catalogare e mettere all’asta tutti i suoi beni. Espone negli spazi questa wunderkammer di oggetti eterogenei che ripercorrono integralmente la sua vita: dall’opera regalatale da Martial Raysse, all’arredamento del suo appartamento e tutti gli oggetti che costruiscono il ricordo della sua vita. La mostra si conclude con l’Inventaire des projets achevés, in cui Calle mostra tutti i progetti della sua carriera accostati a quelli che non hanno mai visto la luce, in una sorta di lento viaggio negli spazi della memoria, un ricordo melanconico per un passato più o meno lontano.
L’esposizione appare come un climax assoluto: dalla mancanza della vista, attraverso la condizione della cecità, approda alla perdita nell’esperienza della morte. Calle ci mostra il trauma della fine, come progressione disperata di un gesto impossibile in “un’ossessiva antropologia visuale”, come ha descritto Vincenzo Trione in L’opera Interminabile (Einaudi, 2019). Cerca di andare costantemente oltre, superare i confini dell’esistente per intraprendere la via della trascendenza. Esibisce il peso di un dolore insostenibile, per far comprendere quanto sia fondamentale per analizzare i più remoti anfratti della nostra psiche.
Il dolore di Calle è poetico e metafisico, ci mostra la meraviglia del dramma, una tragedia esistenziale, attraverso una pratica fortemente topologica: esce da sé gettandosi verso l’esterno, che si trasforma in una sua intima proiezione. L’artista deforma la realtà per imprimere la sua forma agli oggetti che la circondano. Chiunque può immedesimarsi nelle opere esposte, chiunque può sentire il peso dell’esistenza in queste emozioni intense che, come il ricordo, sondano la mente dello spettatore. In una lussuriosa bulimia di significato, le opere riportano l’eco di un dolore atavico che risuona ancora, ancora, ancora negli spazi della nostra memoria, personale e collettiva.
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