In mostra presso la galleria Francesca Antonini fino al 30 gennaio, la personale di Antonello Viola si articola nell’esposizione di una selezione di dieci opere inedite su carta giapponese e una grande installazione ambientale in vetro, ideata appositamente per la sala centrale.
L’arte della fuga. Essenza ed entità si mescolando in un impasto sinfonico nelle opere di Antonello Viola, contrappunti lirici di una storia personale. Il pittore delega alla materia la memoria corporea della sua anima, con un metodo fatto di campiture e partiture e attraverso l’ausilio dell’oro, metallo tenero, duttile e allo stesso tempo incorruttibile.
“Mi sembrava che l’anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale, quando l’inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita.” Davanti le opere della tua personale Anche Bach mi ha salvato inizialmente si ha una sensazione di lirismo, come un preludio a ciò che poi accade quando ci si avvicina di più ai tuoi “quasi monocromi”. Qual è il tuo rapporto con la musica classica e in che modo si lega al tuo fare artistico?
La pittura per me è una pratica solitaria, e la solitudine non è una condizione umana che mi fa sentire in agio. Questa prima premessa è per chiarire una delle sensazioni più forti intorno al mio fare pittorico e al suo divenire. Io non ho un rapporto previlegiato con la musica classica in senso lato, ma piuttosto con delle esperienze specifiche della musica del nostro passato e con alcune del nostro presente. Senza entrare nel dettaglio della mia esperienza, non voglio raccontarvi cosa ascolto, non credo che sia interessante, vorrei chiarire le necessità di un ascolto piuttosto che di un altro. Nella tua domanda si ipotizza che ci sia una relazione stretta tra la musica ed il lirismo della mia pittura. Innegabile la relazione sensibile, ma non scontato il percorso. Percorso che affronto attraverso il metodo, la ripetizione, le sue articolazioni e declinazioni, la reiterazione del gesto. È quindi attraverso il metodo (canone musicale) e le sue variazioni che io raggiungo il lirismo, e non attraverso ciò che farebbe rabbrividire qualsiasi curatore d’arte contemporanea, (mi fa sorridere) l’ispirazione poetica, che di fatto non esiste più e forse non è mai esistita. Mi piace pensarla così. Ma so che non è solo così. Ecco senza dilungarmi troppo, le questioni fondamentali che mettono in relazione la mia opera con la musica. Il vuoto che mi provoca la relazione stretta con la pittura e il metodo, parte essenziale, oserei dire fondante, del mio lavoro e la sua capacità di riempire lo spazio e il tempo. Direi che nella misura di questa esperienza è facile trarre le conclusioni dei miei ascolti. Non tutti però, qualcosa sfugge alle maglie della rete.
Il supporto che hai utilizzato per la realizzazione di queste opere è il washi, un tipo di carta giapponese di buona consistenza che si presta bene a una processualità lenta, tipica del tuo lavoro. Dall’Oriente viene anche il feng shui, secondo cui le opere d’arte, soprattutto quelle pittoriche, influenzano l’ambiente in cui si trovano e le persone che lo vivono. Parlaci della relazione con le tue opere e della predilezione per il materico.
Sarei felice se le mie opere influenzassero l’ambiente in cui si trovano; in meglio, si capisce. Bisognerà chiedere in giro…In realtà non ho mai letto una riga sulle teorie del “feng shui”, e la cosa sostanzialmente non mi interessa. sono quindi relativamente ignaro della cultura giapponese se non per alcuni temi che sento spontaneamente molto vicini e che vivo relativamente al modo in cui io affronto le cose della vita e le mie passioni.
Essenzialità e pulizia. Ovvero, nulla di più di ciò che serve nella misura in cui risultano anche efficaci ed efficienti. Carta giapponese, moto da corsa, essenzialità della materia e velocità; rubo le parole a Melania Rossi: “…in pista, come per la pittura concentrazione e metodo sono vitali”. Non vorrei dilungarmi ma il tema è molto complesso e la tua domanda insiste su molte questioni; implica naturalmente il concetto di astratto, l’assenza di narrazione, di didascalia nell’opera. Assenza di pretesto, la pittura che basta a sé stessa, tema totalmente o quasi assente nell’arte contemporanea. La carta giapponese risponde a tutte queste esigenze. Assenza di storia ma non di contenuto, pulizia totale della materia, efficienza, qualità. Mi diverte pensare che un’altra carta con queste caratteristiche è una carta tedesca. Non credo sia un caso. Certo poi forse mancano alcuni elementi…ma quelli ce li metto io con il mio lavoro. Sto invece rileggendo in questi giorni un libro meraviglioso sulla danza Butoh, da cui sono molto affascinato; mi è stato regalato da una delle persone più care della mia vita.
Per l’aspetto formale e per la loro dimensione più recondita, emozionale, intima i tuoi lavori ricordano Mark Rothko e Barnett Newman anche se dal tuo approccio soggettivo deriva una narrazione più personale. Ti distacchi da altri contemporanei guardando invece ai grandi maestri della pittura, soprattutto per l’utilizzo dell’oro, quali sono i tuoi riferimenti principali in questo?
L’unica cosa che mi interessa di Barnett Newman è Barnett Newman e l’espressionismo astratto. La sua pittura non molto. Le sue campiture piatte e leggermente sorde interrotte da squilli di tromba mi impediscono qualsiasi grado di empatia. Sono oggettivamente povere. Non essenziali, ma povere. Per fortuna ciò che il talento non gli regala gli viene restituito dal contesto e dalla storia, dalla qualità del suo metodo e dal rigore. Un gran Maestro. Invece per ciò che riguarda Rothko la sua esperienza è stato un grande amore. Qualsiasi negazione sarebbe inutile. Amore adolescenziale s’intende, ma pur sempre amore. E che fatica prenderne le distanze. Se si dovesse lavorare con la pittura pensando alla velocità con cui corrono le esigenze del tempo presente (contemporaneità) ci si ridurrebbe a fare della “pitturaccia” e ad usarla unicamente come pretesto, come spesso si fa. Ma la pittura ha altre pretese e bisogna essere coerenti; non avere fretta, altrimenti con tutta quella velocità si sbaglia traiettoria e quindi la curva…Con la pittura non si può scherzare. Troppi maestri con cui fare i conti. Ho lavorato sui dettagli del metodo. Se la forma è la stessa, cambiando il metodo di operare cambierà anche il modo di sentire quella forma. Cambierà la strada, il percorso, i risultati. Il sentire sarà diverso. Sono felice che si sentano i miei riferimenti formali, ancora di più che tu ne abbia percepito una storia distinta…e chi dovrei guardare se non i Maestri? Io non credo che si possa guardare troppo vicino a noi. Nel fare delle considerazioni sull’arte, come hanno insegnato, almeno ad alcuni noi, bisogna tenere ben presente molti fattori e molti non è possibile tenerli in considerazione se non per piaggeria o opportunità; la prossimità è ingannevole. Siamo anche oggettivamente troppi, troppi e male assortiti. Altro fattore determinate alla confusione. Meglio operare là dove il tempo ha fatto lavorare la falce del giusto oblio. Tutto risulta più chiaro ed è possibile apprendere con più profitto le necessarie lezioni dalle quali è impossibile scappare. Che sia chiaro.
Nelle tue opere l’oro si staglia sulla superficie, al di sopra di diverse stratificazioni di colore. Diversi pittori italiani tra il XIII e il XV secolo utilizzavano la foglia d’oro per il fondo di opere di carattere religioso: per rappresentare il non-reale l’oro come simbolo stava a significare il divino. Come ti posizioni rispetto a questi criteri?
Io non sento di assolvere nessuna relazione con il divino. Storicamente lo è stato perché culturalmente e politicamente le religioni non hanno permesso altre possibilità o metafore. L’origine dell’immateriale e dei nostri interessi, amori, sentimenti, curiosità, attese, di tutto ciò che precede l’atto del coagulo e della concrezione delle nostre percezioni immagino che possa trovare la sua soluzione nell’uso di alcuni materiali, tra cui l’oro; cultura e conoscenza fanno il resto, consapevoli o inconsapevoli. Gli echi che la visione di un materiale così caratterizzato culturalmente ci restituiscono sono infiniti ma sono anche infinite le scappatoie che si possono scoprire. Non necessariamente dobbiamo prendere le misure con una relazione nota di causa effetto. Certo è che, astrazione, divino e immateriale passano di la e sono anche fortemente legate agli artisti che ne hanno fatto uso e quindi, relative. Il “divino” di Simone o di Gentile non è certo il divino delle icone di Bisanzio e l’oro dei mosaici d Ravenna non è quello romano. E se il divino passa per ciò che mi ha fatto prima gioire e poi soffrire, allora l’oro è servito a seppellire. Per riportarmi ad un grado zero dei sentimenti e della pittura. È un metallo di contenimento della storia e della sofferenza. Disattendendo un po’ quello che ho appena dichiarato penso all’uso curativo, ricostruttivo. Penso all’arte di “riparare con l’oro”. Diamine di nuovo il Giappone.
Solo per Ricordi Isola di Palmarola hai utilizzato come supporto il vetro, in questo caso l’immagine porta alla mente delle carte geografiche. Solo questa opera ha un titolo che non rimanda alla materia ma ad un ricordo visivo. In qualche modo, Ricordi Isola di Palmarola si distacca dal corpus di opere in mostra, puoi dirci qualcosa di più?
Non so se posso dirti qualcosa di più. Posso dirti che l’uso del vetro è complementare all’uso della carta. Un altro modo di interpretare la sovrapposizione e il corpo del colore/pigmento. Posso cancellare di più le tracce del tempo trascorso e ne sfrutto la pulizia e la trasparenza. Giusto le carte geografiche. Immagino che ci possa essere un aspetto astratto/concreto (la definizione non è mia) facile da ricomporre. In realtà più che una geografia fisica è una geografia dei sentimenti che mi hanno mosso in questi ultimi anni, ai luoghi che ho vissuto e ad alcune esperienze trascorse, a ricordi e a visioni, ma non si distacca dalle esperienze sulla carta e con altri formati. In questo caso posso dire che forma e metodi diversi hanno per me lo stesso sentire. Difficile descriverla o raccontarla, spero basti l’opera. Sarebbe bello arrivasse lì dove deve arrivare.
“I periodi in cui l’arte non ha grandi uomini, in cui manca il pane metaforico, sono periodi di decadenza spirituale. […] In queste epoche silenziose e cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali, e salutano come una grande impresa il progresso tecnico, che giova e può giovare solo al corpo. Le energie spirituali vengono sottovalutate, se non ignorate” Scriveva così Kandinskij all’inizio del Novecento, tu cosa ne pensi oggi?
Penso che stiamo proseguendo nel lavoro. Magari quello che noi immaginiamo ci debba essere restituito arriva sotto altre forme. Io credo che le energie si siano solo spostate di luogo. La sensazione è che Non ci competano più, almeno a noi come categoria, in questo luogo e in questo tempo. Non è detto che sia un male, i grandi uomini ci sono, basta cercarli in altre situazioni. Ci aspettiamo delle regole o delle consuetudini da una realtà plastica e mutevole. Mai come ora lo dovremmo capire, e cento anni nell’economia della storia sono nulla, questo anche in un tempo rapido e pregno di cambiamenti. La cosa più interessante di questa vita è la possibilità di essere disattesa nelle sue aspirazioni e male interpretata, cambiata, stravolta. Posso dichiarare, come ho dichiarato, tutto e il contrario di tutto. Mi rifugio nel “metodo della pittura” per fuggire la paura che ho della morte e dell’imponderabile.
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