Quando decidi di attraversare il canale della Giudecca, quello dello scandalo delle grandi navi, per inoltrarti tra i cortili nascosti di quell’hub naturale, si potrebbe dire, che è proprio lì, in quel lembo estremo dell’isola, sai già che andrai a vedere qualcosa che potrebbe essere complesso, intenso, scelto con cura. E tutto questo di solito ti viene comunicato subito, da quella prima piccola saletta della GalleriaMichela Rizzo in cui il dentro e il fuori si contaminano, che può fungere da ingresso, vano tecnico delle comunicazioni o primo innesto espositivo.
In questo caso, con Andrea Mastrovito, l’imprinting è molto forte e viene dato proprio lì, la cifra di tutto il percorso successivo è contenuta in quel trompe-l’oeil che ti accoglie, facendoti credere che ci siano delle pagine di libro fotocopiate e attaccate con lo scotch di carta ai fondi della cornici appese al muro. Poi invece a quell’occhio ingannato viene un dubbio e, ad un’attenta analisi, il reale si schiude in tutta la sua potenza: è solo disegno, le parole, lo scotch, addirittura la riga nera che spesso accompagna l’area fuori formato della fotocopia. Da qui cominci a capire e ti prepari alle sale a venire.
Dal piccolo formato al grande, si lascia alle spalle questa sala di primizie tutte disegnate, che riproducono romanzi per lo più di formazione nelle loro ri-scritture (romanzi derivati, novelization come si usa dire negli Stati Uniti) per immergersi nelle 4 grandi carte della Storia di un fiore, composizioni complesse in cui si ammicca alla storia europea degli ultimi cent’anni per dare corpo alle sue contraddizioni e follie. Anche qui il senso di spaesamento coglie lo spettatore non perché si trovi di fronte ad un’alterazione di ciò che appare reale, come nella prima stanza, ma più che altro per il rincorrersi dei riferimenti storici immersi in un gioco di specchi che occhieggia all’infanzia, rendendoti partecipe dell’esecuzione dell’opera attraverso il ricorso ad una tecnica, il frottage, che rimanda ad una sensazione fisica prima ancora che ad un ricordo mentale.
Le monetine che si usavano anche da bambini per far prendere corpo ad immagini che risultavano perfette, ben lontane dalla reale capacità di disegnare che il bambino, in quella fase, aveva. Era come una magia, l’emersione di qualcosa che possedevi e che aveva un valore di molto superiore al concetto confuso di denaro, di moneta di scambio, che all’epoca se ne aveva. Si approfondisce l’idea che l’artista, il fautore di questo percorso, stia cercando di trovare un terreno comune tra il sé adulto e il sé bambino, tra lo sguardo ingenuo dell’infanzia e l’inevitabile irruzione della vita adulta. Dell’infanzia infatti non si celebra il lato idilliaco, non emerge l’aspetto arcadico di una condizione felice, ma piuttosto una pulsione costantemente messa in discussione dalla necessità di educare ciò che altrimenti crescerebbe nel selvaggio e nell’inspiegabile. I righelli colorati de L’uomo che poteva fare miracoli non tranquillizzano, sono tutt’altro che rassicuranti. Il loro rimandare a vetrate ecclesiastiche e la complessità dei soggetti ritratti provocano turbamento, più che rilassare. Lo stesso mito della caverna di Platone riporta ad una filosofia conosciuta sui banchi di scuola, più che alla citazione di un qualche filosofo in voga nel mondo del contemporaneo. Di nuovo torna l’elemento formativo, incupito dai tratti neri del disegno e per niente mitigato dalla luce o dai colori dei righelli.
Dulcis in fundo, l’installazione preparata appositamente per questo appuntamento veneziano, una sorta di cosmogonia disegnata e graffiata su cattedra e banchi di scuola, in cui le dodici materie elementari si sommano a visioni dell’oggi, in un magma densissimo di stimoli visivi. Il vuoto di sedie, inutili dal momento che la classe non è fatta per contenere esseri umani ma solo icone di questo stream of consciousness maniacalmente riprodotto nell’incessante disegnare di Mastrovito, prende alla gola, riportando ognuno all’implacabile realtà che il mondo sta attraversando.
La diseducazione al reale diventa allora il titolo stesso della mostra, la testa d’ariete che apre il passaggio al tutto che era successo in precedenza. Con la calma di un amanuense Mastrovito ha bisogno di un medium per spiegarsi la vita e lo trova proprio nel tentativo di riprodurla, senza rinunciare agli innesti più significativi che l’educazione porta con sé e che è possibile, se non necessario, mettere in discussione.