Una delle mostre più attese di quest’anno a Venezia è stata senz’altro quella che omaggia Anish Kapoor (Mumbai, 1954), curata dallo storico dell’arte Taco Dibbits, direttore del Rijksmuseum di Amsterdam e visitabile fino al 9 ottobre, secondo le tempistiche della Biennale.
Le opere dell’artista indiano di adozione londinese tra i più quotati al mondo, si susseguono lungo interni ed esterni di due edifici artistici chiave della città lagunare. Da una parte, le Gallerie dell’Accademia, laddove sorgeva l’antica chiesa di Santa Maria della Carità con il suo monastero (XII secolo), poi divenuta Scuola di Belle Arti. Dall’altra, il settecentesco Palazzo Manfrin, acquistato dall’omonimo conte Girolamo; un ricco commerciante di tabacco, che al piano nobile della dimora storica, allestì una preziosa galleria d’arte, divenuta meta per veri intenditori, se, tra gli altri, la visitarono Antonio Canova, Lord Byron, John Ruskin ed Edouard Manet.
“Tutta l’arte deve sempre confrontarsi con ciò che è accaduto prima. Le Gallerie dell’Accademia rappresentano una sfida meravigliosa e stupefacente. Sento un profondo legame con Venezia, la sua architettura e la sua vocazione per l’arte contemporanea” ha commentato Anish Kapoor, esprimendo la propria fascinazione per i luoghi che ospitano la sua mostra retrospettiva, di oltre 60 opere.
Una carrellata di istallazioni e sculture cardine nella carriera di Kapoor affianca un corpus di lavori inediti, per una ridefinizione dei confini estetici e una riconfigurazione dello spazio. L’essere, il corpo, la pelle dei palazzi. Ogni cosa si trasforma attraverso prospettive shock, ribaltamenti, specularità, suscitando interrogativi, enigmi cromatici, pulsioni d’impatto.
Alle Gallerie i lavori d’esordio eseguiti con il pigmento e le opere sul vuoto, sono alternate da sculture mai viste prima, realizzate in Kapoor Black, brevetto dell’artista. Si tratta di una sostanza nanotecnologica innovativa, in grado di assorbire più del 99,9% della luce visibile. L’applicazione di questo colore su un qualsiasi oggetto, lo rende pressoché impercettibile all’occhio umano, smaterializzandolo. Infatti, l’inciampo sulle sculture in Kapoor Black è dietro l’angolo.
Forze misteriose emergono attraverso un’altra serie di opere nere (Vantablack), protuberanze delle pareti, che indagano l’oscurità come realtà fisica e psichica insieme.
Fra i temi fondanti della Biennale di Venezia 2022, Il latte dei sogni, c’è il corpo e la sua evoluzione, in rapporto con il post-umano. Con Pregnant white within me, Anish Kapoor offre il suo punto di vista in proposito: un gigantesco rigonfiamento latteo dilata le pareti bianche dello spazio espositivo, gonfiandolo. Anche i palazzi possono avere una pancia. Gli ambienti, gli oggetti che ci circondano sono vivi, benché di altra natura. Al nostro impulso distruttivo essi reagiscono manifestandosi. C’è una tensione antropomorfica in atto, cui siamo chiamati a interrogarci e a rispondere.
Tra il 2008 e il 2009 l’artista ha realizzato Shooting into the Corner, un cannone sperimentale che spara cera e silicone, imbrattando di rosso cupo un angolo delle Gallerie dell’Accademia. Esiste un nesso tra violenza e opera d’arte? Il pensiero corre alle guerre in corso e al rapporto tra le potenzialità artistiche e il supporto delle macchine. L’automazione è, non a caso, un altro tema di rilievo della Biennale di quest’anno, 2022.
All’uscita dal primo edificio della mostra il fruitore si misura con uno specchio ovale, volto a catturare il cielo di Venezia, riducendo la pittura di paesaggio ad un autentico qui e ora. Il gioco ottico resta nell’arte di Kapoor ingrediente irrinunciabile.
Il vaporetto numero 1 conduce alla seconda tappa della mostra, ossia Palazzo Manfrin, nel quale, dal soffitto dell’androne, incombe Mount Moria at the Gate of the Ghetto. Una montagna lavica site specific, in silicone e vernici rosse che inizia il pubblico ad una teoria di opere magmatiche. È il caso del trittico di pitture ribollenti Internal Objects in Three Parts (2013–2015). Altri lavori riflettenti, tra sacro, rituale e illusionismo, concorrono alla resa di un’atmosfera surreale, ammiccando alla vicina mostra Surrealismo e magia, allestita al Museo Peggy Guggenheim.
Con la scomparsa del conte Manfrin nell’Ottocento, le sue opere furono vendute e il patrimonio delle Gallerie dell’Accademia si arricchì di ventuno dipinti di grandi maestri: Giorgione, Andrea Mantegna, Hans Memling, Nicolò di Pietro, Girolamo Savoldo, Moretto. Rimasto vuoto per anni, Palazzo Manfrin è stato acquistato recentemente dalla Anish Kapoor Foundation, che manterrà vivo il raffinato spirito artistico del luogo, con la promozione di iniziative culturali grazie alla vitalità e al genio visionario dell’artista.
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