Nata in Inghilterra ed emigrata in Canada in giovane età, Anna Wagner-Ott non ha mai conosciuto il padre biologico, evento che ha spinto l’artista a indagare chi siamo veramente. Le sue sculture indagano così metaforicamente il tema della memoria, ma anche della fragilità, e del vivere al confine per l’innato desiderio umano di libertà. Tanta influenza sul suo lavoro hanno avuto le tematiche ambientali e le disuguaglianze. In fondo tutto il suo lavoro è un combattere per un mondo più giusto ed equo.
Dopo essersi formata a Toronto, ha conseguito un dottorato in Educazione Artistica presso la Penn State University e lavorato come docente universitaria fino al 2013 presso la California State University a Sacramento. Wagner-Ott ha una profonda passione per il colore, il motivo e la texture, che promuovono relazioni simbiotiche. Raramente è soddisfatta dei suoi risultati e spesso ricostruisce ogni pezzo dopo averlo smontato e ricomposto. A partire dagli anni ’80 il suo lavoro è stato esposto e apprezzato soprattutto al di là dell’Atlantico, complice anche uno spirito ribello e anticonformista, del tutto avulso da qualsiasi mondanità. Le è stato assegnato il Best in Show alla Trinity Art Gallery presso il Shenkman Center di Ottawa. Attualmente risiede e gestisce il suo studio in Ontario, Canada.
Il momento attuale caratterizzato da drammi sociali globali, oltre che di genere, ci ha spinto a intervistare Anna per conoscere meglio la sua arte che ha fatto del femminismo solamente il punto di partenza.
Il tuo lavoro sembra avere una forte connotazione etico-sociale o sbaglio?
«All’interno del regno delle mie sculture, si svela un ricco arazzo fatto di fili di lana, una vivace tavolozza di colori, motivi intricati e texture diverse. Esplorando questo intricato intreccio, la mia arte diventa un riflesso della condizione umana: cruda, in conflitto con se stessa e con il mondo circostante, profondamente radicata nelle esperienze personali. L’assenza di conoscenza riguardo al mio padre biologico e la dissimulazione delle verità che ho subito hanno lasciato un’impronta indelebile sulla mia vita e sul mio lavoro. La serie “Brigandine”, che più mi hanno fatto conoscere, trae ispirazione dal tumultuoso panorama globale, segnato dalla guerra, dalle disuguaglianze e dalla inquietante perdita delle identità umane. Attraverso la mia arte, navigo sul sottile confine tra vulnerabilità e resilienza, catturando l’essenza della profonda capacità dello spirito umano di resistere. Al cuore di questo percorso creativo si trova una connessione inscindibile con i tessuti e la mia fidata macchina da cucire. Questi strumenti non sono solo mezzi, ma compagni indispensabili. E’ anche vero che a tutto questo impegno per la società e per gli altri corrisponde una infinita ricerca della mia identità, di chi sono io veramente».
La tua arte riprende spesso le forme del corpo umano. La serie Brigandine che ha citato richiama delle armature. Ci spieghi meglio questo aspetto della tua ricerca?
«È vero le mie opere sono metaforiche armature da indossare per proteggersi. I miei intrecci e le mie trapunte nel corso degli anni hanno cercato di proteggere tutti i deboli e gli oppressi: dalla terra, alle donne, agli emarginati della società. Tutto è nato nei primi anni ’90, quando la mia esplorazione artistica si è addentrata nei temi profondi delle barriere, del confinamento e della palpabile paura di perdere la propria identità. Utilizzando la garza di gesso, ho avvolto intricate forme di cartapesta, trasformandole in figure simili a crocifissi sospesi sulle pareti. Queste sculture denominate “Womandala” hanno affrontato le intricate contraddizioni insite nelle lotte interiori dell’identità femminile, messe a confronto con le pressioni esterne, imposte dalle forze patriarcali. Attraverso la mia arte, ho cercato di fornire una “voce politica” all’arte, affrontando la repressione, la costrizione e la violenza prevalenti inflitte alle donne in quel periodo e non solo. Riflettere su questi lavori, presentati per la prima volta nel 1992 alla Robert McLaughlin Gallery nel 1992 mi suscita ancora e sempre riflessioni: le cose sono cambiate da allora? Senza dubbio, ma non abbastanza. Da allora la garza di gesso ha lasciato spazio a una varietà di filati, lenzuola riciclate, Tyvek e fili. Questi elementi si intrecciano per creare un arazzo texturizzato, che arricchisco con cera pigmentata calda. Questo nuovo “tessuto” aggiunge un simbolismo inedito alle mie creazioni».
Hai viaggiato ampiamente per lavoro, insegnando anche in California. Questo ha influenzato lo sviluppo del tuo lavoro? Come sei cambiato nel corso degli anni?
«Il mio lavoro si è voluto e trasformato con i paesi in cui ho vissuto. Il periodo trascorso alla California State University, insieme alla mia vita a Sacramento, si è rivelato fondamentale per la mia crescita artistica. L’interazione con gli studenti e lo scambio di idee nell’atmosfera vivace del dipartimento di arte hanno arricchito profondamente la mia esperienza, conferendomi la fiducia necessaria per perseguire professionalmente l’arte. Durante il mio soggiorno, ho partecipato a workshop di trapunta artistica presso l’Art Quilt Tahoe. Questa esperienza ha influito significativamente sul mio approccio, specialmente nell’integrare tessuti e ricami nel mio lavoro utilizzando una macchina da cucire. Al momento del pensionamento nel 2013, ho portato con me la ricchezza di conoscenze accumulate in quei 13 anni a Sacramento. Da allora, ho ampliato le tecniche e le intuizioni acquisite, consentendo alla mia arte di evolversi in nuove ed entusiasmanti direzioni, soprattutto con il tessuto».
Ci puoi raccontare di più sulla tua tecnica?
«Cucio meticolosamente insieme i frammenti formati con filo, filati, filo, cera, nastro adesivo e vernici usando la mia affidabile macchina da cucire. Utilizzando tecniche di ricamo, posso abbellire tessuti trasparenti o opachi con filati aggiuntivi, aggiungendo texture intricate. A volte, potenziare la resistenza e la trama delle mie tessiture immergendole in cera o applicando strati di vernice acrilica e spray. Riciclo vecchie lenzuola, le strappo in lunghe strisce e le intreccio su un semplice telaio, infondendo un senso di storia nelle mie creazioni. In tutto questo intricato percorso, le idee concettuali iniziali mi guidano, plasmando l’essenza stessa dell’opera d’arte».
Tu sei una persona vulcanica e il tuo lavoro è la tua vita? Quando capisci che un’opera è qualcosa di “detto”, ovvero di compiuto e finito?
«Mai! Il mio studio è pieno di frammenti scartati, ciascuno potenzialmente parte di una scultura. Ne seleziono uno, lo fisso al muro, iniziando un dialogo con i suoi segnali silenziosi. Aggiungendo nuovi frammenti tessili, mi dedico a manovre tattili: taglio, cucio, strappo, fino a quando la composizione sussurra la sua narrazione. A volte, l’opera raggiunge una conclusione armoniosa; altre volte, si scatena una lotta, rivelando momenti di vulnerabilità. A quel punto, l’opera viene distrutta e ricomincio. Ho scoperto che abbracciare la solitudine e amplificare la mia capacità di ascolto aiutano a creare un’opera con cui posso convivere».
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