C’è stato un tempo in cui le fotografie di Anne Geddes erano dappertutto. Tra gli anni ’90 e i primi 2000, ogni fase della nostra vita era scandita da immagini di neonati pacioccosi, i cui volti sorridenti e ancora in via di definizione erano, molto spesso, sinistramente ibridati ad altri esseri vegetali o animali, quali girasoli, ninfee, rose, barbabietole, carote, api, grilli. Calendari, rubriche, diari, quaderni, puzzle, cartoline, le persone che eravamo noi nel 2003 non volevano saperne nulla, eravamo solo felicissimi di aver trovato l’idea giusta per accompagnare carinamente il regalo principale di compleanni e anniversari. E quando eravamo noi a ricevere quel dono, non potevamo che mostrare un rotondo compiacimento e una profonda gratitudine, perché a chi non piacciono i bambini sorridenti e piegolinati?
Semplice, rassicurante e, soprattutto, a portata di mano, nelle immediate vicinanze delle casse di tutte le librerie e le cartolerie, nei supermercati, nei duty free. Insomma, ci sono certi oggetti che risolvono perfettamente determinati spazi – per esempio le sedie vicino a un tavolo o un quadro sul muro dietro a un divano – e in questa classe di cose si trovano i calendari di Anne Geddes, agganciati come di sfuggita, en passant, nell’espositore adagiato sul bancone della cassa della libreria.
Era un mondo tanto semplice quanto perfetto. Eppure, non ne è rimasta traccia. Oggi le opere di Anne Geddes sono praticamente scomparse dalla circolazione, tranne che, forse, in qualche libreria polverosa e nostalgica, dimenticata da dio e dagli uomini. Ma nelle ultime settimane il suo nome è tornato a circolare con una certa insistenza tra gli imperscrutabili canali dell’internet.
Dal suo profilo Instagram, Geddes ha lanciato una nuova iniziativa per illuminare di gioia anche queste giornate drammatiche. «Ogni giorno leggevo di lavoratori in prima linea che stanno affrontando con coraggio questo momento. E così ho chiesto a Kel, mio marito, cosa potessi fare. Mi sentivo in dovere di fare qualcosa, perché le persone mi conoscono e associano il mio nome a qualcosa di positivo. E allora, mia figlia mi ha consigliato di invitare le persone a mandarmi delle fotografie, condividendo un po’ di gioia. E ho pensato che è qualcosa che ho fatto per quasi 35 anni di carriera», ha spiegato la fotografa ad Artnet.
E centinaia di madri – probabilmente a loro volta cresciute con il mito del bambino di Anne Geddes – hanno risposto entusiasticamente, condividendo con l’hashtag #annegeddesspreadingjoy le fotografie dei propri figli di pochi mesi che non hanno avuto la possibilità di vedere “dal vero” le composizioni originali di Anne Geddes ma che, adesso, faranno parte per sempre della sua bacheca, come le tessere di un antico mosaico di qualche insediamento romano. E così il cerchio si chiude.
Ma la storia ha un finale dolceamaro. Geddes non mette piede in uno studio fotografico dal 2016, quando realizzò una campagna a favore dei vaccini contro la meningite, coinvolgendo peraltro anche la campionessa di scherma italiana Beatrice Vio. I prodotti di carta, il supporto grazie al quale ha accumulato la sua fortuna e consolidato il suo status di icona alla fine degli anni ’90, sono quasi del tutto scomparsi, lasciando la fotografa senza stabili opportunità di lavoro. Fino a ora ha continuato a percepire le royalty per le giacenze ma la produzione, che una volta inondava generosamente gli scaffali dei negozi di tutto il mondo, si è ormai quasi totalmente interrotta. Eppure, nascosto da qualche parte, c’è un magazzino segreto nel quale verranno conservati per sempre i calendari dei primi anni 2000 d.C. con le fotografie dei bambini di Anne Geddes che, dimenticati per generazioni, saranno poi riscoperti all’alba di qualche nuova civiltà, in un ciclo senza fine.
Tornando a noi, questa crisi individuale è però dovuta ai grandi cambiamenti sociali e tecnologici che hanno radicalmente trasformato gli ultimi dieci, quindici anni. La proliferazione dei telefoni cellulari e il parallelo sviluppo dei social network, ha fatto sì che il contenuto, sia esso un banale meme messo insieme in due minuti o uno scatto elaborato come quelli di Geddes, che richiedevano dai sei agli otto mesi di lavorazione, possono essere condivisi alla velocità della luce, il più delle volte senza nemmeno sospettare che ci sia un vero autore. In effetti, tanto paradossale quanto squisitamente logico il fatto che Anne Geddes, eclissatasi dal mondo “reale”, abbia provato a reinventarsi proprio su quel mezzo che ha decretato l’obsolescenza delle sue immagini e che in questi giorni è densissimo di progetti.
Che poi, se vogliamo azzardare una continuità visiva tra il mondo prima e quello durante l’internet massivo, certi meme, in particolare quelli della fortunata serie BUONGIORNISSIMO KAFFE, sembrano la naturale prosecuzione delle fotografie di Anne Geddes, non solo dal punto di vista formale e del messaggio – cioè l’ottimismo a colazione – ma anche funzionale, se pensiamo alla fruizione massificata, spostasi dai corridoi dei grandi magazzini alle vetrine di Amazon e agli annunci mimetizzati sui Social Network. Ma questo sarà un tema da storia dell’arte.
«Penso sia estremamente gratificante il fatto di essere stata in grado di elevare i bambini a una forma d’arte. Il loro potere è onesto e puro perché i neonati sono tutto per la razza umana. Non esiste un bambino di cattivo umore. È quello che succede dopo che cambia tutto», ha affermato Geddes, che ha anche un Patreon, per chi volesse continuare ad alimentare il sacro fuoco del mito, da adesso fino alla fine dei tempi.
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