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Anselm Kiefer, per un’arte al di là del bene e del male: intervista a Vincenzo Trione
Arte contemporanea
L’artista tedesco è il “portiere di notte della nostra modernità declinante”, presenta un’archeologia interiore composta dai relitti di una storia senza tempo e senza spazio. Una costruzione del sapere fondata sulla natura del silenzio, che pervade i luoghi abitati da questa figura altera, che si muove tra astrazione e mitologia, metafisica ed esperienza, storia e apocalisse: la profonda intuizione del nulla. Prologo Celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer, pubblicato da Einaudi nel 2023, è l’ultimo libro di Vincenzo Trione, critico, docente universitario, curatore dalla profonda matrice filologica. Indaga la poetica di un artista complesso, attanagliato tra un’impareggiabile ipertrofia di significato, scorribande letterarie, e una pratica cruda, austera, organica, alchemica.
Un ritratto di Anselm Kiefer completo, poetico. Un percorso di significato attraverso le architetture degli spazi che questo individuo più che singolare – si potrebbe dire, globale – ha modificato con la propria presenza: La Ribaute, il complesso a Barjac, e lo studio di Croissy, entrambi in Francia. Luoghi che Kiefer plasma nello sforzo titanico di raggiungere la forma, sofferta, dell’origine. Trione interseca il mito e l’artista, identificato in tre figure differenti.
Prometeo: nella tragedia di Eschilo, ribelle incapace di accettare l’imposizione della norma divina. Kiefer è demiurgo al servizio del reale, plasma lo spazio a sua immagine trasgredendo l’ordine naturale e il limite della realtà per riflettere sull’infinita matrice delle possibilità del libero arbitrio. Lo streben, lo sforzo, nella concezione di una cosmogonia personale.
Efesto: fabbro di oggetti impossibili, situato nelle viscere magmatiche della terra. L’artista tedesco estrae dall’esistenza la sua essenza, utilizza il fuoco, la terra, la chimica, per trascendere la materia e le sue forme. Ricerca il vuoto, irraggiungibile condizione alla base di ogni cosa. Una pratica incerta, che procede per tentativi: “l’artista non è del tutto padrone di ciò che sta mettendo al mondo: il processo poetico non è completamente governato da lui”, cita Trione.
Sisifo: scaltro e senza scrupoli. Per Camus, simbolo dell’insensatezza dell’esistenza: ride della sua condizione tragica, condannato a spingere per l’eternità un masso sulla cima di pendio da cui, inesorabilmente, continuerà a cadere. Una pratica infinita, che nell’artista si traduce nell’abnegazione della possibilità di un approdo definitivo. Il fallimento è sempre incombente, ed è la cognizione dell’incompletezza e della manchevolezza dell’essere umano.
Trione visita questi luoghi, osserva in silenzio la trasformazione che accade ineluttabile attorno a lui. Attraversa lo spazio, ripercorre il tempo, fino ad arrivare ad interrogare Kiefer sulla creazione, la genesi. Pedina l’artista cogliendone i riflessi più intimi, quasi disperati. Coglie la condizione di imperfezione esistenziale che tormenta questo grande artista.
Qual è, fondamentalmente l’obiettivo del libro?
«Innanzitutto, cercare di abitare i luoghi dove nasce l’opera di Kiefer per dimostrare come soltanto attraverso la frequentazione di quei luoghi si possa arrivare alla ricca, plurale e complessa stratificazione che caratterizza le sue opere. Voglio rimarcare ciò che ha detto uno dei grandi padri della critica d’arte moderna, Diderot, che esortava i critici a visitare gli atelier degli artisti, perché solo in questo modo avrebbero potuto capire l’essenza dell’opera d’arte. La mia lunga frequentazione dell’opera di Kiefer mi ha portato a confrontarmi con una produzione che ci interroga e pone una serie di questioni decisive per il nostro tempo».
L’officina di Barjac sembra una terra desolata, costruita attraverso antri, anfratti, costruzioni apogee e ipogee, torri e detriti, relitti e incidenti. Testimonia l’impossibilità di imprimere un ordine assoluto alla realtà e si scontra con lo sforzo demiurgico per cui Kiefer forgia a sua immagine questi luoghi. In che modo Kiefer proietta sé stesso negli spazi di Barjac e Croissy?
«Sono due luoghi che si sostengono a vicenda, ma radicalmente diversi. Nel caso di Barjac siamo di fronte ad una sorta di grande opera d’arte totale. Kiefer recupera oggetti, interviene direttamente all’interno di questa distesa, trasformando il paesaggio. Barjac diventa il grande scenario, il grande teatro, all’interno del quale l’artista ricolloca e risitua le opere. Alcune sono realizzate ad hoc mentre altre, già prodotte, nel momento in cui entrano a Barjac, acquistano una valenza completamente diversa. Un luogo in continuo divenire, in continua trasformazione. Nel caso di Croissy siamo di fronte ad uno spazio nel quale Kiefer si prende la libertà di sperimentare, di inventare, di correggere, di cancellare. È il luogo in cui marca la sua distanza dal sistema dell’arte e dal mercato. Qui le opere vengono presentate nella loro fase processuale: l’opera come processo, non come oggetto finito destinato a una galleria, a un museo, a una fondazione o a una casa privata».
Oltre a riflettere sullo spazio, Kiefer è profondamente connesso ad una riflessione sul tempo. Che è il tempo della storia, ma anche e soprattutto il tempo dell’origine. Un meta-tempo, fuori dal tempo e prima del tempo stesso. Nel libro, paragona il laboratorio di Kiefer al CERN di Ginevra, quale è il senso profondo di questa assonanza?
«Kiefer è affascinato dalla scienza, è un ambito che continua a frequentare. Una serie di opere è ispirata ad una delle teorie più poetiche della fisica, la teoria delle stringhe. È anche affascinato dall’astronomia, come dimostrano le Costellazioni. Per lui, l’artista non è troppo diverso da uno scienziato e come nel CERN si studia la trasformazione della materia. Perciò, Kiefer pensa Croissy come uno spazio nel quale la materia è sottoposta a ininterrotte trasformazioni: viene violata, violentata, abusata. Intrecci in cui affiora la sua vocazione da alchimista: può fondere alto e basso e può trasformare materie povere in materie preziose. Si pensi all’utilizzo del piombo e della paglia, ma anche delle feci, dello sperma, delle unghie. Per Kiefer, queste sono materie che possono essere usate, manipolate, e portate verso altre traiettorie».
L’artista si aggira tra questi luoghi come un essere schivo e mitologico, lavora in una fucina di idee, estrae il significato dalla materia: combina elementi organici ed inorganici, ibrida nature eterogenee e differenti senza scostarsi dal medium della pittura. In che modo la pratica alchemica di Kiefer si fonde ad una profonda riflessione sul medium stesso?
«In Kiefer, l’alchimia è immagine della trasformazione. Se si passeggia a Croissy, ci si imbatte in oggetti, materiali, reperti, reliquie di qualsiasi tipo. La sua idea dell’alchimia racconta il bisogno di trasformare materiali per lo più poveri, portarli verso territori diversi. Profanarli per sublimarli. Compito dell’artista-alchimista è compiere questa transustanziazione. Una delle tecniche più interessanti è l’elettrolisi, che consente a Kiefer di intervenire direttamente sulla materia o su immagini fotografiche con cancellazioni che non è possibile calcolare».
Kiefer sembra elaborare una sorta di pratica archeologica del presente, inteso in un certo senso specifico, che ha la sua radice in Foucault: pone delle condizioni di possibilità, senza riflettere necessariamente sul presente. La nostra contemporaneità appare come il luogo infinito delle possibilità in cui il futuro sembra concretizzarsi. In un passaggio, paragona Kiefer a Tiresia, veggente cieco della nostra decadenza. Quali sono le condizioni del presente che l’artista proietta nella sua riflessione?
«Credo che l’opera di Kiefer vada letta alla luce del bisogno di ripensare l’idea stessa di contemporaneità. Essere contemporanei non significa esclusivamente abitare il presente, ma creare una costellazione di senso nella quale quel che è stato e quel che è si uniscono simultaneamente, secondo la lezione di Benjamin. Tutta l’opera di Kiefer è iscritta nel segno di un processo archeologico: Barjac è disseminata di rovine. Lì, Kiefer si comporta come un archeologo impegnato a dissotterrare reperti, reliquie. Come se provasse a salvare questi oggetti da una sorta di sonno della ragione. Paradossalmente, questo sforzo non è uno sguardo al passato, ma si tramuta nella profezia di un’apocalisse imminente o già avvenuta. Questa capacità di farsi profezia di un tempo lontano ma incombente e il recupero di frammenti di altre epoche, è il vero senso del viaggio attraverso il tempo proposto da Kiefer».
Nel libro cita il profondo legame concettuale con la filosofia di Andrea Emo, per cui l’uomo può comprendere la propria spiritualità solo attraverso la negazione, la sottrazione del significato. L’esito necessario, come lei ha marcato, sta nella riflessione sul nulla. Quale è il senso profondo di questo tentativo di comprendere il nulla? E perché è così necessario? Mi risuona un passaggio della Grande Bellezza, in cui Jep Gambardella dichiara che la massima ambizione di Flaubert fosse quella di scrivere un romanzo sul nulla.
«Kiefer cerca un appoggio, un sostegno, in pensatori, filosofi, scrittori, poeti, che talvolta gli rivelano oppure danno corpo a pensieri che egli già aveva coltivato, ma che non era riuscito ad esprimere in maniera compiuta. Uno di questi autori è Andrea Emo. Il filosofo ha elaborato una teoretica del niente che, per Kiefer, ha a che vedere sostanzialmente con il bisogno di segnare un passaggio decisivo dalla creazione alla de-creazione. La vera ebbrezza del fare arte, per Kiefer, non sta tanto nel costruire qualcosa, ma nel mettere insieme un processo di costruzione, distruzione e ricostruzione senza fine. Ecco, dunque, che egli sceglie di inumare le opere d’arte e riversare su di esse del fango, di seppellirle in luoghi misteriosi in attesa che possano, per eventi strani e incalcolabili, riaffiorare. Talvolta, vive quasi con gioia il momento in cui sistema degli ordigni ai piedi delle torri e li fa esplodere con atti che sembrano quasi rimandare alla scena finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. L’ebbrezza del distruggere per tendere verso il nulla. Il nulla, per Kiefer, non è il luogo di partenza della creazione: non c’è una sua opera che non affondi le sue ragioni in un riferimento culturale, storico o storico-artistico. Poi, inizia il viaggio verso il nulla. Il vero compimento dell’opera, per Kiefer, è quando essa si dissolve e non finisce appesa ad una parete».
Oltre che una profonda riflessione sulla sua pratica, il testo sicuramente affronta l’importanza, storica e concettuale, dell’atelier. Considerata la riflessione sul ruolo dell’atelier nella storia dell’arte, penso ad O’Doherty in Inside the White Cube, o all’immagine di Rilke nell’atelier di Rodin, Barbezat e l’atelier di Giacometti, l’atelier di Bacon. In che modo Kiefer riflette sull’atelier?
«L’atelier è una sorta di araba fenice che è morta e risorta più volte nel corso della storia dell’arte. È soltanto in quello spazio che si ha la possibilità di misurarsi con opere che non sono ancora né merci né prodotti: non sono ancora state contaminate dal mercato, e dunque possono essere sottoposte ad ininterrotte trasformazioni. L’atelier non è soltanto un contenitore, è un luogo nel quale il corpo assume uno spazio, i gesti si fanno materia, segni e icone. Quello che ci hanno insegnato Giacometti e Bacon è che l’atelier è co-protagonista dell’opera, delle fantasie degli artisti, delle loro immaginazioni, dei loro gesti. Oggi molti artisti hanno vere factory, come nei casi di Koons, Hirst, Murakami. Nel caso di Kiefer siamo di fronte ad un unicum non solo nella storia dell’arte contemporanea, ma nella storia degli atelier. È come se Kiefer, a Barjac, avesse concretizzato il sogno di Michelangelo di avere un atelier, oggi potremmo dire quasi un post atelier, all’interno delle cave di Carrara».
Per concludere, c’è una domanda che mi risuona costantemente da quando ho letto il suo libro. Forse, è alla base della concezione di Kiefer circa l’irraggiungibilità di un significato definitivo, della sua vicenda autobiografica, della ricerca delle rovine di questa nostra contemporaneità fatiscente. Un artista può impedire al male di diventare bellezza? Che cosa ci aiuta a comprendere, del nostro tempo, la pratica di Kiefer?
«Kiefer parte sempre da domande assolute, metafisiche. Quando parla delle escrescenze del male e quando si chiede come sia possibile impedire al male di prendere il sopravvento, la sua risposta è netta: non è possibile, non c’è nessuna possibilità di riscatto. L’opera d’arte non ha nulla a che vedere con la cronaca e con il presente, ma si inserisce nei momenti negativi della storia. La visione kieferiana della storia è segnata dal tema del male. Kiefer è un uomo nato a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale: in fondo, egli non ha mai rimosso quel dramma. L’arte deve essere una forma di sguardo critico di testimoni inquieti del male della storia. Nella poetica di Kiefer, l’arte ha la funzione di saldare la scrittura diurna, che consiste nella capacità di rielaborare il presente, con la scrittura notturna: l’artista affronta e interroga i lati negativi della storia, senza rimuoverli. Kiefer non è un documentarista, vuole filtrare alcuni grandi eventi della storia attraverso la grammatica dell’arte. L’uso delle materie e la loro trasformazione, la costruzione di iconografie, inventano una vera drammaturgia. Questa capacità di misurarsi con la storia e reinventare, attraverso la pittura e la scultura, la storia stessa, credo sia la chiave inconfondibile del linguaggio di Kiefer».