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Appunti di cultura visuale: Andrea Pinotti alla Fondazione Pini
Arte contemporanea
Giorni Segreti è la mostra di Giovanni De Lazzari attualmente in corso alla Fondazione Adolfo Pini di Milano. Un progetto che ricompone le tappe della produzione dell’artista, a partire dai suoi taccuini fino a disegni, collage, opere pittoriche e scultoree. La ricerca di De Lazzari propone una riflessione sul significato delle immagini, che lui paragona ad alcuni insetti, per i quali lo stadio conclusivo della loro metamorfosi è definito imago. Un’associazione interessante, che cammina di pari passo con gli studi di cultura visuale. Non a caso Andrea Pinotti – professore di Estetica all’Università Statale di Milano – sarà ospite alla Fondazione Adolfo Pini lunedì 24 febbraio alle 18:30. Pinotti si occupa di teorie dell’empatia e dell’immagine, di cultura visuale e di teorie e pratiche della monumentalità contemporanea.
L’incontro alla Fondazione Pini ha un titolo emblematico: “Sfarfallamenti. Il dischiudersi delle immagini a partire da Warburg”. Un’immagine sfarfalla? Dunque l’immagine è viva? Si tratta di una metafora cara tanto ad Aby Warburg quando, nel nostro tempo, a Giovanni De Lazzari, come dimostra efficacemente nel percorso della mostra. Per arrivare preparati alla riflessione sui questi temi di cultura visuale, abbiamo fatto qualche domanda al professor Pinotti, per chiarire i concetti che si nascondono dietro questa associazione tra immagini e natura, immagini e vita.
Vivi, eppure non mi fai niente. L’intervista ad Andrea Pinotti.
La poetica dell’artista in mostra, Giovanni De Lazzari, ruota attorno a questa sua dichiarazione: “Pensando alla zoologia mi piace paragonare lo sviluppo delle immagini a quello di alcuni insetti, per i quali lo stadio conclusivo della loro metamorfosi è definito imago”. È dunque possibile pensare alle immagini come entità organiche, vive?
«A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, gli studi di cultura visuale e di antropologia delle immagini hanno rivalutato una lunga tradizione – quella delle “immagini attive” (imagines agentes) – che ha concepito l’immagine non come un oggetto inerte, rinchiuso nella propria rassicurante cornice, e offerto alla distaccata contemplazione estetica, bensì come un’entità vivente, una sorta di quasi-soggetto, capace di agire e reagire con noi, e di provocarci sul piano affettivo ed emotivo, di muoverci nell’anima e nel corpo, di stimolare le nostre capacità empatiche. È il caso ad esempio degli idoli religiosi, delle immagini erotiche, delle figure iconiche dell’immaginario collettivo. Studi come The Power of Images di David Freedberg (1989), Art and Agency di Alfred Gell (1998) o What Do Pictures Want? (2006) di W.J.T. Mitchell sono a questo riguardo dei veri apripista.
Si tratta di fenomeni che ci costringono a ripensare radicalmente il dualismo di soggetto/oggetto, così profondamente radicato nella nostra tradizione culturale. Grazie al confronto che intratteniamo con le immagini attive siamo costretti a rimettere in discussione lo statuto di mera cosa come di un’entità opposta a noi come soggetti. Le ricerche antropologiche contemporanee (penso a Tim Ingold, Philippe Descola, Carlo Severi, Eduardo Viveiros de Castro) sono da questo punto di vista molto preziose perché lavorano proprio su modelli ontologici alternativi che cercano di sottrarsi a quel dualismo».
Durante l’incontro ci sarà un focus sul concetto di sfarfallamento, del dischiudersi della farfalla dalla crisalide. Come questa metafora può applicarsi alla produzione di immagini? Si presenta anche un valore contraddittorio che questo schiudersi può assumere. In che senso?
«L’entomologia ha fornito ai teorici delle immagini potenti metafore per comprenderne la natura e il funzionamento. Warburg era profondamente affascinato dalle relazioni fra diverse temporalità (ad esempio antichità e Rinascimento) e differenti spazialità (ad esempio Europa del Nord e Italia), e ha usato la metafora dello sfarfallamento per alludere al dischiudersi in epoca moderna di una nuova sensibilità emozionale e corporea che al contempo riprendeva e variava le antiche forme, rimaste imbozzolate per molti secoli, ma pregne di una vitalità in attesa di manifestarsi.
Un autore che gli era caro, lo zoologo Richard Semon, aveva indagato come da una stessa larva, a seconda dell’alimentazione che le veniva fornita, potesse svilupparsi un’ape operaia o un’ape regina. In modo analogo, Warburg pensava al simbolo come a una larva neutra che poteva svilupparsi in sensi diversi, persino opposti: ad esempio il serpente, come simbolo del peccato e della morte oppure come simbolo di salvezza (il serpente di Asclepio, che troviamo ancor oggi sulle vetrine delle nostre farmacie. D’altra parte ogni medicina è pharmakon, nel doppio senso di un medicamento che può portarci alla guarigione ma che, se assunto in maniera errata, può intossicarci e anche condurci alla morte».
Si tratta di una metafora che è stata tanto cara ad Aby Warburg. A partire da lui, come è evoluto il concetto di organicità dell’immagine, fino ad arrivare ai giorni nostri? Mi viene in mente, per esempio, la riflessione di Horst Bredekamp in “Immagini che ci guardano”, dove si riconosce all’immagine la possibilità di compiere un atto, l’atto iconico, come cosa viva.
«Ad apertura dei suoi appunti giovanili sul rapporto fra immagine ed espressione, Warburg si era appuntato la frase: “Vivi, eppure non mi fai niente”. Alludeva in questo modo al fatto che le immagini vanno comprese nella loro relazione a bios, alla vita, e insieme nella loro funzione di controllo e bonifica delle paure ancestrali dell’uomo. Raffigurare un serpente in immagine – per fare ancora l’esempio warburghiano sopra citato – significa confrontarsi con un animale potenzialmente mortale per gli esseri umani (che hanno imparato a temerlo fin dall’alba dei tempi) e al contempo, per così dire, metterlo in sicurezza (poiché un serpente dipinto non potrà mai uccidermi con il suo veleno).
Questa dinamica si ripresenta anche nelle immagini che raffigurano volti e occhi che ci guardano: il volto che ci interpella da un ritratto, lo sguardo che ci guarda mentre lo guardiamo, si mette in dialogo con noi, buca la barriera che separa l’immagine dalla realtà per coinvolgerci e immergerci nel suo spazio-tempo: ricostruire la storia dei modi in cui le immagini hanno reso gli sguardi ci offre la possibilità di delineare una genealogia degli ambienti immersivi virtuali, che oggi rappresentano uno degli orizzonti più affascinanti (e anche inquietanti) della nostra esperienza d’immagine».