Il Maxxi omaggia, con una bella e importante mostra, la figura di Riccardo Dalisi. All’indomani della sua scomparsa, avvenuta nell’aprile del 2022, ebbi modo di tracciare su queste pagine i tratti della sua poliedrica personalità. Negli anni Settanta, insieme ad altri amici ed artisti ebbi la fortuna di entrare in contatto con lui, frequentando il suo mitico studio in calata S. Francesco al Vomero: un vero e proprio capolavoro di stratificazioni creative, scrivevo; una sorta di straordinaria e particolare wunderkammer di mille oggetti e progetti; un universo denso in cui ti perdevi e nel quale lui invece si orientava con la disinvoltura di un volatile nel cielo.
Dunque, “Riccardo Dalisi. Radicalmente”, come recita il titolo dell’esposizione, che ha preso forma grazie all’impeccabile curatela di Gabriele Neri, architetto, storico dell’architettura e del design. Titolo quanto mai appropriato, visto e considerato che il grande architetto e designer nato a Potenza, ma vissuto da sempre a Napoli, ha impostato tutta la sua ricerca sulla varietà e originalità, ispirata da una verve ‘sovversiva’, di capovolgimento radicale dei fondamenti logici del progetto; radicale, e pionieristicamente illuminato dal bisogno di sconfinamenti disciplinari che lo hanno portato ad abbracciare, in un reale affondo di ricerca, discipline come la sociologia, la poesia, l’antropologia, la matematica e la geometria (generativa). Tutto ciò in alternativa ad “un’idea di modernità omologante”.
Si parte dunque dall’ormai mitico concetto di ‘tecnica povera’ (che, ovviamente, non ha nulla a che vedere con l’Arte povera’); una tecnica che si basava essenzialmente sul principio di partecipazione, animazione della creatività insita nell’umano, còlto soprattutto nelle condizioni di disagio e emarginazione sociale delle periferie. Un esempio per tutti, il lavoro svolto come docente nel 1971 con gli studenti di architettura al Rione Traiano di Napoli, con apertura di laboratori di falegnameria e cartapesta (frequentati in quegli anni anche da chi scrive). Ma non solo, perché Riccardo Dalisi considerava la relazione tra gli individui, animata dalla creatività, una via regia per l’emancipazione sociale. Per questo faceva cucire, assemblare, ricamare, costruire oggetti bizzarri di tutti i tipi attivando il potenziale di creatività degli scugnizzi, di ragazzi non scolarizzati; sollecitando nel contempo anche gli adulti, i comitati di quartiere; ponendo così, direttamente sul tavolo della polis, la responsabilità della ‘politica’ nei confronti dei ‘giacimenti auriferi’ delle coscienze, abbandonate nelle periferie; guarda caso sempre prive di strutture adeguate e di condizioni necessarie allo sviluppo dell’individuo. Insomma, una ‘tecnica povera’ in rivolta, che contrastava palesemente con la specializzazione della tecnologia avanzata, paradigma della contemporaneità. Si pensi alla Sedia del Cece, costruita da una bambina con legno di scarto e una molletta per panni e un cece, che l’architetto sottopose all’attenzione di personaggi importanti dell’arte e del design, a cui chiese una interpretazione grafica ad esso ispirato. Iniziativa tesa a fare emergere la creatività in una dimensione più collettiva o, se si vuole, corale. Concetto, quest’ultimo, diventato poi un modello operativo di buona parte dei gruppi di artisti che hanno operato negli anni Settanta. Così il visitatore si troverà di fronte ad una vera e propria collezione, fatta da disegni realizzati da Aldo Rossi, Franco Purini, Bruno Munari, Enzo Mari, Joseph Beuys, Paolo Portoghesi, Gae Aulenti, Andy Warhol, Giancarlo De Carlo.
E dunque la storia di Dalisi, che mi è sempre apparsa come un caldo tessuto, in cui la trama e l’ordito corrispondono alla profondità della ricerca e alla leggerezza del racconto. Un racconto in cui l’autore
ci narra delle strade percorse e degli incontri continui, non fugaci, ma basati su un ‘laboratorio’ di sensibilità condivise in continuità, di sovrapposizioni di visioni per nuove ‘geometrie’, che sono sempre geometrie spirituali, di intrecci relazionali.
Una narrazione in cui – come pure in più occasioni ha ribadito Renzo Piano -la fa da padrone la tensione all’ascolto dell’alterità che è condizione essenziale, imprescindibile, per avviare qualsiasi progetto di costruzione/ricostruzione. Incontri autentici, come con i lattonai e ramaioli di Rua Catalana a Napoli; un mondo, un universo da cui egli ha attinto i principi creativi che lo hanno portato alla realizzazione delle mitiche caffettiere, declinate nelle infinite forme di personaggi fiabeschi e popolari; come il celebre Totocchio (sintesi tra Totò e Pinocchio), la cui storia è racchiusa nel volume omonimo edito nel 1994 da F&T Book.
Insomma, una galassia poetica, quella delle caffettiere, formatasi a partire dalla collaborazione con l’azienda Alessi, che non mancherà di mettere in produzione un modello finale e che porterà Dalisi a inanellare, nel 1981, un importante Compasso d’Oro. Dunque, una vera e propria legione pronta a combattere per versare il mitico caffè napoletano; e come è stato detto e scritto, un esercito fatto da robot, Pulcinella, Totocchi, cavalieri, guerrieri, in cui gli aspetti funzionali si sintetizzano con gli elementi culturali e antropologici strettamente legati al particolare rapporto che l’architetto aveva con Napoli. Come dire che l’oggetto assurge veramente alla sua più alta funzione se non abbandona la dimensione poetica.
Spiccano al centro della sala gli oggetti progettati per l’Urfaust (prima versione del Faust di Johann Wolfgang von Goethe), messo in scena dalla Libera Scena Ensemble di Gennaro Vitiello nel 1973. E, naturalmente, altre opere, come sculture, piccoli divani, modellini di carta, disegni, documenti grafici di progettazioni di edifici, mosaici, lampade, alcune venute alla luce all’insegna dell’”ultrapoverismo” sempre in sintonia con l’iconografia popolare realizzate anche da persone senza alcuna esperienza, ma pronte ad imparare un mestiere.
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