Volge al termine la quinta edizione di Una Boccata d’Arte, la manifestazione promossa dalla Fondazione Elpis, in collaborazione con Galleria Continua e Threes Production. Da giugno, il progetto ha coinvolto 20 borghi, uno per ciascuna Regione, con la partecipazione esclusiva di artisti under 35. In questo ambito, l’artista Elena Rivoltini ci racconta il suo progetto Archive of Voices, con cui ha esplorato i concetti di archivio e memoria attraverso un’installazione sonora site-specific a Bassiano, nel Lazio. A cura di Irene Angenica per Threes, l’opera ha raccolto le voci degli abitanti, riflettendo sull’importanza della memoria collettiva, in contrasto alle logiche produttive del mercato dell’arte.
Come è nata l’idea di creare un archivio affettivo delle voci degli abitanti e in che
modo il contesto specifico di Bassiano ha influenzato lo sviluppo del progetto?
«La prima volta che ho visitato Bassiano mi ha colpito il numero di case con il cartello
“vendesi” sulla porta. Cartelli sbiaditi, logorati dal tempo, appesi a queste mura vuote
ormai da anni, come mi ha raccontato uno degli abitanti del borgo. Molti se ne sono
andati, preferendo trasferirsi nelle palazzine costruite fuori dal centro storico: il cuore
di Bassiano si è spopolato. Così mi è venuta l’idea di costruire un archivio affettivo
delle voci del borgo, creando una cartografia sonora che rivendicasse le storie minori
e ripopolasse quelle mura silenti e vuote attraverso il suono».
Archive of Voices indaga il tema della memoria stratificata attraverso un’archeologia vocale. Come hai utilizzato i frammenti melodici tratti dal repertorio madrigalistico di Antonio Cifra?
«Inizialmente pensavo di attingere al repertorio madrigalistico, in particolare a quello di
Antonio Cifra, un compositore di inizio Seicento probabilmente nato a Bassiano, ma
poi ho preferito dedicarmi totalmente agli/alle abitanti del borgo, ai loro corpi presenti
e alla loro memoria orale precipitata nella materialità delle loro voci. Ho cercato di
evitare qualsiasi forma di estrattivismo e appropriazione culturale: le persone mi hanno
accolto nelle loro case, offerto del cibo, raccontato i loro sogni e le loro storie, in un
contesto di fiducia e cura reciproca.
A poco a poco è svanita la diffidenza nei confronti del microfono e degli strumenti di “cattura” dei loro racconti e degli stornelli sedimentati nella loro memoria ma rimasti silenti per decenni. Li cantavano nella loro infanzia e giovinezza durante lavori collettivi come la raccolta delle olive o il lavaggio del bucato nel lavatoio pubblico cittadino. Venute meno queste attività e questi momenti di aggregazione sociale, anche il repertorio canoro è rimasto isolato nei ricordi di ciascuno/a. Recuperare l’eco antica di queste reminiscenze personali e collettive mi è sembrato più urgente che consolidare un repertorio madrigalistico secondo i canoni della Storia con la S maiuscola.
Riannodare i fili di queste storie personali rimaste a lungo in silenzio mi ha permesso di riorganizzare alcune gerarchie di valore, riflettendo sul concetto stesso di archivio come dispositivo anti-museale che riattualizza il passato secondo percorsi non lineari e non normativi».
Che ruolo gioca la musica nel rafforzare il senso di continuità e memoria collettiva nel progetto?
«L’opening dell’installazione sonora si è inaspettatamente trasformato in una sessione
di canto collettivo improvvisata dagli/dalle abitanti: alla seconda o terza traccia, una di
loro ha cominciato a doppiare dal vivo la sua stessa voce registrata e tutte/i l’hanno
seguita, ricordandosi frammenti di canzoni che, quando ero a tu per tu nelle loro case,
cercavano di intonare interrompendosi dopo pochi secondi. I frammenti di memoria
personale si sono ricomposti nella memoria collettiva facendo riaffiorare il senso di
continuità e comunità».
Puoi raccontarci com’è stato per te lavorare con la comunità locale?
«È stato un processo delicato, che ha richiesto molti mesi e uno spaesamento rispetto
alle modalità di produzione artistica della maggior parte dei contesti contemporanei.
Ho imparato a ridare valore politico e poetico alla lentezza. Una ricchezza intangibile e
immateriale ha iniziato a riverberarsi nei singoli rapporti intessuti con ciascuno/a di
loro. Non tutta immateriale: sono felice, per esempio, che lo spazio scelto per
l’installazione sonora, una chiesa sconsacrata usata come caotico deposito di oggetti da smaltire, sia stato sgomberato e d’ora in poi rimarrà a disposizione della comunità. La pulizia dello spazio ha permesso a magnifici affreschi del XIII secolo di riaffiorare e
rendersi nuovamente visibili. Il cantastorie del paese, Quirino, mi ha detto che
vorrebbe farne lo scenario per il suo prossimo concerto di brani in dialetto bassianese
e la notizia mi ha fatto sobbalzare il cuore di gioia.»
Concetti come memoria, cura e comunità sono alla base del progetto che hai portato a Bassiano. In che modo questi temi si intrecciano con il tuo lavoro?
«Da tempo rifletto sul rapporto tra scomparsa del corpo e persistenza della voce, mi
affascina la materia spettrale della vocalità e del suono. Forse cerco di ricordare la
voce dei miei nonni registrando frammenti di voci altrui. La scelta di comporre un LP
che raccogliesse questo primo capitolo di Archive of voices, progetto che mi
piacerebbe estendere ad altre comunità, altre geografie e altre tradizioni, corrisponde
al tentativo di aggiungere il vinile ai supporti di scrittura già presenti nel Museo delle
Scritture Aldo Manuzio, editore e umanista nato proprio a Bassiano, a cui il disco verrà
donato. Mi interessava trasferire il concetto di stampa dalla carta al vinile, dare un
supporto materico al suono e immaginare nuove narrazioni, sensi e direzioni possibili».
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