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Nell’archivio del presente: Ninì Sgambati e Paolo Puddu al Madre di Napoli
Arte contemporanea
Cosa può accomunare Ninì Sgambati e Paolo Puddu, artisti diversi per provenienza, formazione e generazione, in dialogo nelle sale del museo Madre di Napoli, per il progetto espositivo Detto tra le righe? In occasione del secondo capitolo del più ampio programma Materia di Studios, che ha già visto la mostra di Mathelda Balatresi e Veronica Bisesti ed è curato da Olga Scotto di Vettimo, Mario Francesco Simeone, Alessandra Troncone e Brunella Velardi di LET – Laboratorio di Esplorazioni Transdisciplinari del Museo Madre, entrambi gli artisti sono stati chiamati a misurarsi sul terreno dell’archivio, inteso come «Contesto di interazione tra forze contrastanti e perennemente in atto nei processi di trasmissione della conoscenza e del pensiero».
Lungi dal coniugare definizioni univoche, qui le operazioni di conservazione e di scarto della memoria sottendono un processo corrente, un «Archivio del presente» più che un deposito del passato, come spiegatoci da Puddu. Una condizione, questa, che prelude a scelte autodeterministiche, allo schieramento degli artisti su posizioni identitarie differenti, fronteggiandosi in un immaginario campo di scontro.
L’uno, Ninì Sgambati (Marigliano, 1945), da sempre coinvolto in un Progetto estetico per la distruzione dell’arte (volendo citare uno dei suoi primi lavori, 1971), indaga il linguaggio artistico promuovendo la sperimentazione di una metodica collettiva. L’esperienza associativa e laboratoriale rappresenta una costante della sua pratica artistica e si intreccia con elementi ideologici processuali, sociali, comunicativi.
La dimensione collettiva assume dapprima i caratteri di una ricerca filosofica e psicoanalitica negli anni del CRPA – Collettivo Ricerca Poteri Alternativi, assieme a Tullio De Gennaro, a Berardo Impegno e a Elio Pomella. Tra il 1994 e il 2006, si formalizza nelle teorie della QuartaPittura, un progetto di studio e di ricerca interdisciplinare, condotto insieme con Franz Iandolo e gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli (presso cui era titolare della IV Cattedra di Pittura, perlappunto), teso a investigare le «Potenzialità estetiche e comunicative dei fenomeni collettivi», come scritto da Olga Scotto Di Vettimo, in cui l’oggetto artistico è il frutto di un esperimento collettivo, spesso compiuto in luoghi non necessariamente deputati all’arte.
Successivamente, fino al 2012, Sgambati perviene a una nuova esperienza associativa, Username, giocata tutta sui limiti identitari e sui segni minimi, a partire dall’autoritratto, fino alla linea e alla scrittura. E infine, dal 2014 a oggi, approda a una concezione diffusa e nomade del laboratorio, con il progetto Giusto il tempo di un tè, costituito da un gruppo operativo eterogeneo e fondato su una pratica conoscitiva dinamica e multidisciplinare.
L’altro, Paolo Puddu (Napoli, 1986), nella sua ricerca, riformula il concetto di gesto scultoreo inteso ora come indagine sui valori materiali e immateriali dell’opera (Ottorosso, 2012), ora come concentrazione di elementi antitetici – realtà e illusione, visibile e invisibile (A01_24; Fragile e Moon, 2012-2014) – e ora come ridefinizione segnica del significante (Follow the Shape, 2016), sperimentando inedite modalità della percezione. La comprensione degli aspetti comportamentali dell’articolato rapporto uomo-ambiente, privato-pubblico, costituisce un campo di analisi privilegiato per Puddu, i cui risvolti sociali e politici si ripercuotono sul processo artistico non senza rinunciare al tentativo estetizzante di creare nuovi sistemi spaziali e concettuali.
Nelle tre sale al primo piano del museo d’arte contemporanea di Napoli, il percorso dialettico di Detto tra le righe è articolato secondo una struttura triadica coerente e condivisa: Soggetto, Verbo e Oggetto. Nel primo atto, entrambi i soggetti sperimentano il confronto ravvicinato nell’intreccio di braccia, stabilendo il principio di base della lotta: tirare e spingere. I corpi sono sottoposti a un sistema di rappresentazione mediato da un duplice processo tecnologico, la scansione 3D e la lavorazione per fresatura del gesso. L’adozione di procedure meccanizzate ha consentito di ridurre l’estrinsecazione dell’ego individuale, assottigliandone il portato di conoscenze ed esperienze, in favore di un Io condiviso e, quindi, esprimendo l’unitarietà del binomio Sgambati-Puddu. Il conflitto assume l’aspetto e le dimensioni canoniche di una metopa dorica, proiettandosi nell’orizzonte eterno del modello fidiaco e perpetuando così l’interminabile opposizione mito e storia, arcaico e moderno, sacro e prosaico.
Nella sala delle colonne il confronto di forze opposte si addensa in un’intricata rete di linee tese e curve, corrispondenti alle forze di trazione e di compressione. I tubi in alluminio rivestiti di grafite ridefiniscono lo spazio voltato del soffitto, costituendo un campo di energie applicate e scaricate sulla struttura dell’edificio, misurabili attraverso dei dispositivi elettronici (i dinamometri). L’azione, per quanto invisibile e impalpabile, agisce in maniera costante e descrive un sistema dinamico di spinte, soggette a sollecitazioni esterne. Di qui proviene il titolo dell’istallazione, che dà principio a infinite coniugazioni del Verbo e diviene anticamera di una cosmogonia post umana.
Nell’ultima sala, concepita come una sorta di sala d’attesa e lasciata in penombra, la riflessione è posta sulla ricerca di una possibile via di fuga alle condizioni esistenziali finora note. Essa è individuata nell’UFO, letteralmente nell’oggetto-volante-non-identificato, avulso dai limiti naturali e umani e pertanto capace di accedere a dimensioni inesperite. Ancora una volta, la seduzione per un’estetica acheropita comporta l’impiego di un’immagine non creata ex-homo, ma selezionata dal web: su tre schermi viene proiettato in loop un frame in cui è riproposta la visione fugace dell’Oggetto alieno, tentando la messa a fuoco di ciò che invece si sottrae ad ogni determinazione. La sala costituisce anche un contrappeso alla prima, in quanto introduce l’idea di una mitologia futura, pensata come un’alternativa potenziale a quella classica, incentrata non sugli stati primordiale e causali dell’uomo, quanto sui presagi dell’Essente.
Dunque, ritornando alla domanda iniziale, cosa accomuna i due artisti se non l’adozione di un linguaggio ridotto in termini essenziali, la ricerca della specificità dei contesti e la conquista di inedite pratiche epistemologiche, come quelle radunate in questa mostra? Se in ciascuno dei lavori sono pienamente riconoscibile le identità di entrambi gli artisti, allo stesso modo esse appaiono inscindibili e indistricabili, in quanto legittimate nello statuto dogmatico dell’arte.