14 giugno 2024

Art Basel, grandezza e limiti delle fiere: una riflessione da Basilea

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Art Basel è il termometro della qualità dell’arte. Ma cos’è la qualità? Una riflessione dalla fiera di Basilea, tra il vociare e le contrattazioni

Hauser & Wirth. Georgia O’Keeffe, Sky with moon, 1966

Dalle automobili ai passanti, ci troviamo in un luogo che non è, per qualche giorno, parte del mondo: un non-luogo di passaggio in cui si entra in un vortice senza limite di ricchezza. Siamo ad Art Basel, porto lussuoso, sfarzoso e, sopratutto, mondano. Per Paul Virilio, essenzialmente l’essere umano è portato al suo completo disfacimento: psichico, fisico, emotivo e, infine, culturale. Verrebbe, ipoteticamente, sostituito da un suo surrogato – una sua copia – completamente disinteressato alle sue sorti perché focalizzato sulla soddisfazione dei propri bisogni egoistici. Dunque, non il Mercato in quanto entità ma un certo tipo di mercato può portare a quella che Baudrillard ha definito La Sparizione dell’Arte: il vanishing point in cui l’arte non esiste più in quanto arte ma in quanto merce.

Che cosa separa l’autonomia della verità artistica dal suo consumo frenetico? La qualità? E dove esiste? Quale è il limite della qualità stessa? Esporre un Baselitz è di per sé indice di ricerca? Perché, invece, forse le ultime opere di Rudolf Stingel sono davvero rappresentative dell’infinita poesia dell’artista? Ci sono i Picasso, i Basquiat, gli Albers, Joan Mitchell, i Judd – di cui uno, esposto nella grande fiera, potrebbe essere tranquillamente considerato museale se non uno dei più bei lavori dell’artista -, i Flavin, un Kandinskij del Blauereiter da manuale di storia dell’arte, Berlinde de Bruyckere, Kapoor, Miroslaw Balka, Eliasson, Ann Veronica Janssen, Parreno, Elmgreen & Dragset, Gormley, Craigg, Cerith Wyn Evans, Calder, Christo, Roni Horn, Tinguely, Buren e Bourgeois, Nari Ward, Jenny Holzer e Barbara Krueger, Sol LeWitt. E poi gli Accardi, i Dorazio, Paolini, Merz, Rondinone, Penone, Manzoni, Pascali, Spalletti, Fontana, Burri, Paladino, Pistoletto, per non dimenticare i Salvo (forse, anche qui, uno dei più belli).

Ma la domanda che mi ha assillato per tutto il tempo è stata circa il valore delle opere. E non intendo, ovviamente, il prezzo. Lo specchio per le allodole per attrarre un certo tipo di collezionista non sono certo che sia né la strategia di vendita dei galleristi presenti a Basilea (con esperienza e conoscenze sicuramente maggiori del 90% della popolazione che si interessa o si intende d’arte), né l’interesse di chi spende tempo e denaro (ingentemente) per essere presente. Ho passato ore all’interno della fiera a chiedere a chiunque conoscessi che cosa è davvero di qualità. Alcuni mi hanno dato delle indicazioni estremamente illuminanti e che custodirò gelosamente – dopotutto, l’asimmetria è alla base del rapporto stesso tra artista e spettatore -. Altri hanno preferito applicare una certa clausola di riserva del gusto: come se, dopotutto, il gusto stesso di chi compra costituisse la qualità della ricerca.

Fondamentalmente, è necessario stabilire un vademecum pseudo-oggettivo quando si visita una fiera. Distinguere mercanti da gallerie di ricerca è forse corretto? Si tratta, pur sempre, di un luogo atto alle trattative, necessario a finalizzare vendite, investimento economico per quelle gallerie (precisamente selezionate) che ne prendono parte. Dunque, il valore. La qualità dell’arte dovrebbe risiedere, nel parere di chi scrive, nel suo essere fondamentalmente universale: un’eco ancestrale di rimandi sempre e costantemente attuali, per quanto l’opera d’arte sia, di per sé, perennemente inattuale. Dovrebbe essere un paradosso, rispecchiando – fino a un certo punto – lo sviluppo spasmodico e irrazionale dell’esistenza. Sono le opere che riescono a comunicare questo retaggio atavico immediatamente, senza velature pornografiche, e questo è indipendente dalla qualità intrinseca della produzione delle opere. Il vero artista è davvero quell’individuo che riesce a entrare in contatto con qualcosa di ben più alto, ben più importante, della religione stessa. La religiosità è irrilevante se confrontata alla percezione profonda della verità dell’esistenza.

In quanto intermediario assoluto tra la realtà (in quanto verità) e l’oggetto opera d’arte (in quanto traduzione della verità in oggetto), l’artista deve e può riuscire a indagare queste dimensioni lontane che si palesano di fronte alla sua vista simultaneamente. E qui si potrebbe aprire un altro discorso sulla materialità o l’effimerità dell’opera d’arte. Se ci si pensa a fondo, tutto resta pur sempre legato alla dimensione materiale dell’oggetto: le performance stesse nascono grazie al corpo (il già menzionato corpo dell’arte di Nancy, quella proiezione dell’io in quanto identità che costruisce l’opera d’arte); si potrebbe dire che restano anch’esse naturalmente legate all’oggetto-corpo.

Vagando per diverse ore all’interno di questi spazi immensi in cui lo stupore si affievolisce per via della stanchezza, a un certo punto la nausea coglie il sopravvento. È tanto ma non è eccessivamente troppo. Ciascuna singola opera richiede il tempo e la pazienza, l’accortezza e l’attenzione, l’energia e l’interesse per essere scoperta. Confuso e disorientato dall’eterogeneità e dalla mole incessante e bulimica di opere, le mie domande non hanno avuto una risposta certa e definita. Dopotutto, come raggiungere l’illuminazione circa una delle domande più assillanti dell’intera storia dell’arte – se non della storia del pensiero -, ubriaco del vociare, delle contrattazioni, delle spiegazioni?

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