La dittatura militare argentina appare come un pretesto fondamentale per poter riflettere e costruire una genealogia specifica – collocandola nel paese sudamericano – della violenza. Una pratica di elaborazione del dolore che si compie nella catarsi collettiva. L’esposizione Argentina. Quel che la notte racconta al giorno, curata da Andrés Duprat e Diego Sileo presso il PAC – Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, ci permette di riflettere sulla storia e sviluppare un percorso di perlaborazione collettiva del trauma della violenza. Negli spazi progettati da Ignazio Gardella, le opere percorrono un vasto periodo di tempo della storia dell’Argentina contemporanea (dal 1946 al 2023) per insistere su specifici fenomeni di violenza che si sono susseguiti in una terra che è stata per anni meta delle grandi migrazioni europee.
Il percorso si snoda su tre assi fondamentali – ironia, letteralità e citazione – e coinvolge opere di venti artisti argentini di diverse generazioni: Eduardo Basualdo, Mariana Bellotto, Adriana Bustos, Matias Duville, Leandro Erlich, León Ferrari, Lucio Fontana, Ana Gallardo, Alberto Greco, Jorge Macchi, Liliana Maresca, Marta Minujín, Miguel Rothschild, Adrián Villar Rojas, Cristina Piffer, Liliana Porter, Nicolás Robbio, Graciela Sacco, Alessandra Sanguinetti, Tomás Saraceno, Mariela Scafati, Juan Sorrentino.
Il titolo è omaggio dell’omonimo romanzo di Héctor Bianciotti, in cui un immigrato piemontese, che vive nella pampa argentina, decide di sfuggire alla povertà iscrivendosi in seminario, dove – di notte – si rende conto di un mondo oscuro, ambiguo, costellato di intricate vicende politiche e scandali sessuali nel periodo di massima ascesa del peronismo.
L’opposizione tra l’oscurità e l’inquietudine della notte alla chiarezza e luminosità del giorno, di cui il romanzo è testimone, è evidentemente in linea con la politica del terrore perpetrata durante la dittatura militare. Pilar Calveiro, nel suo testo Potere e desaparición (Mimesis Edizioni, 2020) descrive i soprusi di un regime che ergeva la violenza a matrice ontologica della sua costituzione: i rapimenti avvengono sempre nell’ombra e nel silenzio della notte, dove nessuno può sentire e nessuno può vedere cosa avviene; il giorno, con la sua abbagliante luminosità, può solo mostrare le tragiche tracce degli avvenimenti.
Sempre Calveiro insiste su come questo meccanismo, unitamente ai campi di concentramento, ai centri di detenzione e di tortura, agisse profondamente nell’atto di privare i soggetti della propria identità. Meccanismi di spersonalizzazione che minavano ad annullare il singolo, in una violenza di cui l’assassinio non era che un esito, si potrebbe dire, quasi “banale”. Gli artisti in mostra sembrano agire in questo senso: vogliono riappropriarsi dell’identità, della personalità, per poter risolvere il trauma, universale, della violenza.
L’opera Trilogia pandémica (2022) di Mariana Bellotto, rimanda all’appropriazione del corpo, un corpo politico, in un mondo alla deriva verso nuove distopie. León Ferrari, con La civilización occidental y cristiana (1965), denuncia la barbarie occidentale per insistere sui meccanismi di riappropriazione culturale. Cuantos cuerpos somos cuando te toco? (2023) di Mariela Scafati gioca con la pittura in un’installazione site-specific per evidenziare la libertà del genere. Cerimonia Nacional (2016) di Adriana Bustos mostra il parallelismo tra gli XI Giochi Olimpici di Berlino del 1936, durante il governo nazionalsocialista di Hitler e i Mondiali di calcio del 1978, avvenuti alla presenza di Jorge Rafael Videla.
Dopotutto, è la riappropriazione l’unica via attraverso la quale poter individuare e concentrare il dolore. Come le Madres de Plaza de Mayo rivendicavano la scomparsa dei propri figli invocando una restituzione, gli artisti invocano un’apologia della democrazia. La conservazione dei più alti valori etici e politici è il punto critico della nostra contemporaneità, aperta ai conservatorismi più pericolosi: nella nostra logica di espansione progressiva della conoscenza, assistiamo a un’involuzione del pensiero – basterebbe pensare al saluto romano, recentemente “scagionato” quando incorre in atteggiamenti commemorativi e non apologetici, la cui differenza sottile appare forse irrilevante.
L’esposizione, aperta dal 21 novembre 2023 all’11 febbraio 2024, ci catapulta all’interno della nostra stessa psiche. Approfondisce una dimensione esistenziale in cui possiamo percepire il nostro intimo dolore. Parafrasando Frederic Gròs, ci mostra come il dolore, figlio della più profonda vergogna, può realmente agire come sentimento rivoluzionario, siccome «Le ferite più intime sono in attesa di una configurazione futura, di una risoluzione» (Nottetempo, 2023).
La mostra Argentina. Quel che la notte racconta al giorno sarà visitabile fino all’11 febbraio 2024 al PAC di Milano.
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