Recentemente celebrata in una grande mostra allo Yorkshire Sculpture Park, Joana Vasconcelos è unâartista portoghese conosciuta in tutto il mondo per la pratica di appropriazione e decontestualizzazione di oggetti di uso quotidiano, trasformati in sculture-simboli della societĂ , suggerendo una riflessione critica sulle dinamiche sociali e identitarie.
Dichiaratamente femminile e femminista, il lavoro dellâartista esplora gli stereotipi di genere e ne restituisce lâanalisi attraverso enormi sculture colorate, composte da cuciture, tessuti e ricami. I suoi lavori costituiscono un tentativo di monumentalizzare e liberare i compiti tradizionalmente associati alla figura della donna rimettendo in discussione gli stereotipi che danno forma al mondo femminile e a quello maschile.
Le opere di Joana Vasconcelos sono tuttavia affette da un gigantismo che sembra quasi celebrare quella stereotipizzazione delle immagini che, al contrario, vuole combattere.
Se vogliamo proporre un paragone, possiamo considerare lâinstallazione MaestĂ Sofferente del designer italiano Gaetano Pesce, tornata sotto i riflettori lo scorso aprile in occasione del Salone del Mobile di Milano e di cui una versione leggermente diversa venne vandalizzata a Roma, nel 2014. Lâopera, la cui idea risale al 1969, era nata con la volontĂ di denunciare la violenza sulle donne ma sembrava creare poco meno che un certo godimento negli occhi dei suoi fruitori. Infatti, lâinstallazione fu aspramente criticata, per via della reificazione della figura della donna e per il focus, piuttosto vetusto, sulla figura della vittima e non su quella del carnefice.
Il gigantismo, comunque, in qualsiasi sua forma, ricorda quasi sempre quella formula per cui âchi urla di piĂš la vinceâ.
Certo, i lavori scelti per lâultima mostra di Joana Vasconcelos allo Yorkshire Sculpture Park sono tuttâaltro che violenti. Lâartista portoghese celebra il suo femminismo attraverso opere sgargianti, maestose e certamente affascinanti, come quelle che abbiamo visto in Italia in diverse edizioni della Biennale di Venezia, tra cui quella del 2019, quando espose le sue sculture sullâisola di San Clemente, (ce ne parlava lâartista stessa, in questa nostra intervista).
Il fulcro della mostra allo Yorkshire Park è la monumentale Valkyrie Marina Rinaldi (2014), lunga 12 metri e sospesa al soffitto della galleria principale. Lâopera fa parte della serie dedicata alle combattenti Valchirie ed è stata realizzata per la Fashion Week milanese della griffe Marina Rinaldi.
Allâesterno, classici stereotipi di genere si incontrano in SolitĂĄrio (2018), un enorme anello di fidanzamento fatto di bicchieri di whisky e ruote dâoro: un commento apparentemente poco chiaro sul consumismo e sul lusso. CosĂŹ anche Marilyn (2009-2011) un enorme paio di tacchi alti costruiti tramite lâuso di pentole dovrebbero rappresentare unâallusione alla sottomissione delle donne in ambiente domestico.
Un secondo spazio interno della galleria è padroneggiato invece da Call Center (2014-2016), unâopera enorme a forma di pistola Beretta, scura potente e chiassosa, che stereotipizza (o celebra?) la virilitĂ maschile.
Clemen Parrocchetti, artista italiana del movimento femminista, utilizzava ago, filo e tessuti come strumento di espressione artistica, ma la ricerca militante delle artiste italiane degli anni â70, piĂš che denunciare, voleva proporsi come un vero e proprio manifesto sociale e civile, nel solco di una lotta politica.
Forse Carla Lonzi, una delle artiste cardine di quel movimento, può chiarirci le idee sul rapporto fra arte e femminismo e far germinare nuovi stimoli di riflessione: ÂŤFuggo le femministe-artiste (e viceversa): con lâalibi di potenziare lâespressione femminile mettono a profitto gli spunti esistenziali delle donne nel solo campo dove alligna il profitto, la cultura maschile, e tradiscono le compagne che non accettano di vendersi in cambio dellâidentitĂ sociale. CosĂŹ, come femministe bagnano il pane nel piatto dellâoppressa, come artiste ne traggono nutrimento per passare in campo avverso, e con la necessaria mimetizzazione. Cosâè quellâassunzione dellâepiteto âartisteâ? Unâinvestitura innocente? Qualcosa a cui si rivendica il diritto come alla paritĂ di salario? Oppure? Si tratta del diritto a esprimersi o del diritto a fare parte, sia pure in assetto femminile, di un ambito la cui appartenenza garantisce la qualificazione di sĂŠ? Ma da chi proviene quella qualificazione? Da altre artiste? E a loro chi lâha procurata? I loro meriti? Non è cosĂŹÂť.
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