Arte e femminismo: Joana Vasconcelos allo Yorkshire Park

di - 21 Marzo 2020

Recentemente celebrata in una grande mostra allo Yorkshire Sculpture Park, Joana Vasconcelos è un’artista portoghese conosciuta in tutto il mondo per la pratica di appropriazione e decontestualizzazione di oggetti di uso quotidiano, trasformati in sculture-simboli della società, suggerendo una riflessione critica sulle dinamiche sociali e identitarie.

Dichiaratamente femminile e femminista, il lavoro dell’artista esplora gli stereotipi di genere e ne restituisce l’analisi attraverso enormi sculture colorate, composte da cuciture, tessuti e ricami. I suoi lavori costituiscono un tentativo di monumentalizzare e liberare i compiti tradizionalmente associati alla figura della donna rimettendo in discussione gli stereotipi che danno forma al mondo femminile e a quello maschile.

I gigantismi dell’era contemporanea

Le opere di Joana Vasconcelos sono tuttavia affette da un gigantismo che sembra quasi celebrare quella stereotipizzazione delle immagini che, al contrario, vuole combattere.

Gaetano Pesce, Maestà sofferente

Se vogliamo proporre un paragone, possiamo considerare l’installazione Maestà Sofferente del designer italiano Gaetano Pesce, tornata sotto i riflettori lo scorso aprile in occasione del Salone del Mobile di Milano e di cui una versione leggermente diversa venne vandalizzata a Roma, nel 2014. L’opera, la cui idea risale al 1969, era nata con la volontà di denunciare la violenza sulle donne ma sembrava creare poco meno che un certo godimento negli occhi dei suoi fruitori. Infatti, l’installazione fu aspramente criticata, per via della reificazione della figura della donna e per il focus, piuttosto vetusto, sulla figura della vittima e non su quella del carnefice.

Il gigantismo, comunque, in qualsiasi sua forma, ricorda quasi sempre quella formula per cui “chi urla di più la vince”.

Femminismo: militanza o comfort zone?

Certo, i lavori scelti per l’ultima mostra di Joana Vasconcelos allo Yorkshire Sculpture Park sono tutt’altro che violenti. L’artista portoghese celebra il suo femminismo attraverso opere sgargianti, maestose e certamente affascinanti, come quelle che abbiamo visto in Italia in diverse edizioni della Biennale di Venezia, tra cui quella del 2019, quando espose le sue sculture sull’isola di San Clemente, (ce ne parlava l’artista stessa, in questa nostra intervista).

Il fulcro della mostra allo Yorkshire Park è la monumentale Valkyrie Marina Rinaldi (2014), lunga 12 metri e sospesa al soffitto della galleria principale. L’opera fa parte della serie dedicata alle combattenti Valchirie ed è stata realizzata per la Fashion Week milanese della griffe Marina Rinaldi.

Joana Vasconcelos, Valkyrie Marina Rinaldi, 2014

All’esterno, classici stereotipi di genere si incontrano in Solitário (2018), un enorme anello di fidanzamento fatto di bicchieri di whisky e ruote d’oro: un commento apparentemente poco chiaro sul consumismo e sul lusso. Così anche Marilyn (2009-2011) un enorme paio di tacchi alti costruiti tramite l’uso di pentole dovrebbero rappresentare un’allusione alla sottomissione delle donne in ambiente domestico.

Joana Vasconcelos, Solitaire (Solitário), 2018

Un secondo spazio interno della galleria è padroneggiato invece da Call Center (2014-2016), un’opera enorme a forma di pistola Beretta, scura potente e chiassosa, che stereotipizza (o celebra?) la virilità maschile.

Joana Vasconcelos, Call Center

Arte e femminismo, parola alle protagoniste

Clemen Parrocchetti, artista italiana del movimento femminista, utilizzava ago, filo e tessuti come strumento di espressione artistica, ma la ricerca militante delle artiste italiane degli anni ’70, più che denunciare, voleva proporsi come un vero e proprio manifesto sociale e civile, nel solco di una lotta politica.

Forse Carla Lonzi, una delle artiste cardine di quel movimento, può chiarirci le idee sul rapporto fra arte e femminismo e far germinare nuovi stimoli di riflessione: «Fuggo le femministe-artiste (e viceversa): con l’alibi di potenziare l’espressione femminile mettono a profitto gli spunti esistenziali delle donne nel solo campo dove alligna il profitto, la cultura maschile, e tradiscono le compagne che non accettano di vendersi in cambio dell’identità sociale. Così, come femministe bagnano il pane nel piatto dell’oppressa, come artiste ne traggono nutrimento per passare in campo avverso, e con la necessaria mimetizzazione. Cos’è quell’assunzione dell’epiteto “artiste”? Un’investitura innocente? Qualcosa a cui si rivendica il diritto come alla parità di salario? Oppure? Si tratta del diritto a esprimersi o del diritto a fare parte, sia pure in assetto femminile, di un ambito la cui appartenenza garantisce la qualificazione di sé? Ma da chi proviene quella qualificazione? Da altre artiste? E a loro chi l’ha procurata? I loro meriti? Non è così».

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