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Ileana Sonnabend e l’Arte Povera: la mostra al MNAR di Bucarest
Arte contemporanea
All’interno della storia dell’arte, è innegabile quanto le gallerie abbiano un posto rilevante e preminente all’interno del vasto panorama di sperimentazioni e rivoluzioni che l’arte più o meno contemporanea ha sviluppato. A partire dai primi mercanti, alcuni pionieri come Paul Durand Ruel, Ambroise Vollard, Daniel Henry Kahnweiler e altri realmente galleristi come Joseph Duveen, si è costruito il complesso sistema dell’arte tradizionale che oggi appare alquanto frammentato – e, senza dubbio, in una certa crisi. Dalla passione per l’arte alla professionalizzazione, si potrebbe dire, si è costruita quella che Achille Bonito Oliva ha definito una “catena di Sant’Antonio” o ancora quello che Arthur Danto ha chiamato “artworld”. Da sempre l’arte, in quanto libera creazione dell’artista, ha dovuto cedere a logiche economiche che ne hanno permesso la sussistenza e la perpetuazione attraverso le epoche e attraverso diversi sistemi economici.
Evitando di voler speculare eccessivamente sulla reale natura autonoma dell’arte – e qui potrebbero incorrere Baudrillard, Greenberg, lo stesso Danto, Borriaud e Bourdieu, Foucault e tanti, troppi, altri – riflettere sul ruolo delle gallerie all’interno di questo sistema complesso appare quanto più importante per distinguere criticamente i fenomeni del mercato attuale. Il MNAR – Muzeul Național de Artă al României, in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia in Romania, l’Istituto Italiano di Cultura a Bucarest e Antonio Homem della Sonnabend Collection Foundation, rende oggi omaggio alla gallerista, di origine romena, Ileana Sonnabend. Ileana Sonnabend & Arte Povera, curata da Ilaria Bernardi, vuole ricostruire cronologicamente il vasto percorso della giovane gallerista, scomparsa a New York nel 2007.
A partire dall’incontro con Leo Castelli a Bucarest, seguito nel 1957 alla partenza per New York dove i due hanno fondato la loro prima galleria con lo scopo di promuovere l’arte americana contemporanea, per arrivare al secondo matrimonio con Michael Sonnabend e alle sperimentazioni poveriste nelle gallerie di Parigi (aperta nel 1962) e New York (nel 1970), la mostra omaggia il profondo rapporto tra la gallerista e l’avanguardia italiana del secondo Novecento che, ancora oggi, è la più nota a livello internazionale. Negli spazi dell’ottocentesco Palazzo Reale di Bucarest, restaurato nel 1935 a seguito di un importante incendio del decennio precedente, si intrecciano le opere di Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis, Mario Merz, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio e, a introdurre l’esposizione, un omaggio a Mario Schifano, il primo artista italiano che Sonnabend ha esposto e che dunque ha segnato l’inizio del suo profondo legame con l’arte italiana.
Abbiamo intervistato la curatrice per approfondire il senso della mostra e il suo percorso, ma anche il gesto, profondo, di un’operazione di questo tipo che mira alla costruzione di connessioni culturali e politiche oltre la natura stessa dell’arte.
Una domanda piuttosto di rito. Quale è lo scopo di elaborare una mostra di questo genere in questi spazi?
«Ileana Sonnabend nacque a Bucharest nel 1914 e all’età di circa venti anni si trasferì prima a Parigi e poi a New York con il primo marito, Leo Castelli, per poi aprire una galleria a Parigi nel 1962 e a New York nel 1970 con il suo secondo marito Michael Sonnabend, promuovendo artisti che hanno profondamente inciso nella storia dell’arte e che oggi sono nelle collezioni dei più importanti musei internazionali. La mostra al Museo Nazionale di Bucharest desidera rendere per la prima volta omaggio a Ileana Sonnabend nella sua città natale, sottolineando la sua lungimiranza nella scelta degli artisti, il suo approccio internazionale capace di mettere in connessione l’arte di due continenti, l’America e l’Europa, e in particolare il suo profondo legame con l’Italia».
Nella mostra emerge un aspetto sicuramente trascurato o comunque non spesso approfondito del rapporto tra Ileana Sonnabend e l’Italia. L’Italia, di fatto, è dove ha incontrato il primo marito, Leo Castelli, e dove si è sviluppata la sua ricerca prima che aprisse la galleria di New York. Quale è il nesso tra Sonnabend e l’Italia e tra l’Italia e la Romania?
«Il nesso tra Italia e Romania sta nel rapporto che la romena Ileana Sonnabend riuscì a intessere con l’Italia, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Sessanta.
Nel 1932 Ileana Sonnabend incontrò a Bucharest il triestino Leo Castelli appena trasferitosi in quella città per lavoro. I due si sposarono nel 1933 e si trasferirono subito prima a Parigi e poi a New York. Nel 1959 si separano e nello stesso anno Ileana sposò Michael Sonnabend con cui nel 1961 si trasferì a Roma con l’intenzione di aprire una galleria per promuovere l’arte d’avanguardia americana. Il progetto fallì, ma i Sonnabend lasciarono Roma con un nucleo di opere di Schifano che fu il primo artista italiano ad esporre nella loro prima galleria che aprirono a Parigi nel 1962. Nel dicembre del 1962 Michelangelo Pistoletto, che aveva saputo dell’apertura della loro, li incontrò a Parigi e ne nacque un rapporto di collaborazione che sfociò in due mostre personali, una nel 1964 e una nel 1967. Nel frattempo, conobbero a Torino il gallerista Gian Enzo Sperone che li introdusse agli artisti inclusi da Celant nel gruppo dell’Arte Povera. Da qui le mostre alla Sonnabend Gallery di (nell’ordine): Gilberto Zorio, Mario Merz, Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis, Giulio Paolini. Inoltre, nel 1972 fu Celant l’autore delle prime due monografie pubblicate dalla Sonnabend Press: la prima dedicata a Piero Manzoni e la seconda a Giulio Paolini. Da allora Ileana Sonnabend ha sempre mantenuto un forte legame con l’Italia che tramite la sua Fondazione prosegue ancora oggi».
Mi ricordo che, nella scorsa intervista di dicembre 2023, parlavamo del fatto che l’Arte Povera potesse essere utile per comprendere come si sono sviluppati i vari movimenti che, dall’Arte Povera, hanno sicuramente tratto ispirazione e metodo. Come dicevamo, infatti, l’Arte povera è profondamente “nomade”. Permane, in questo caso, questo nomadismo? E come si configura nell’esposizione?
«In questo caso il nomadismo non è una caratteristica soltanto dell’Arte povera ma anche di Ileana Sonnabend che da Bucharest si è trasferì a Roma, a Parigi, a New York e poi di nuovo a Parigi e infine a New York dove è mancata nel 2007. La sua vita si è sviluppata tra due continenti, l’America e l’Europa, cercando sempre di valicare ogni tipo di confine geografico che relegasse gli artisti a una specifica provenienza nazionale. Per Ileana Sonnabend l’arte è universale e gli artisti da lei scelti erano quelli capaci di renderla tale».
Le chiederei una narrazione del progetto espositivo, soprattutto per chi non potrà vederlo. La sua fondamentale matrice storica mi sembra permanga anche in questo specifico caso. Una strategia curatoriale sicuramente precisa e utile a mantenere in vita un movimento che resta sempre aperto a nuove vie interpretative. Parlando con Marco Tonelli, mi accennava al necessario dialogo che dovrebbe svilupparsi tra l’arte povera e le altre correnti a lei contemporanee – come il minimalismo e l’ultimo strascico dell’espressionismo astratto statunitense. In questo, il rapporto tra Ileana Sonnabend e i poveristi, può essere l’incipit di questo nuovo dialogo necessario?
«Nel 2017 Tommaso Montanari e Vincenzo Trione nel libro Contro le mostre scrivevano che il sistema culturale attuale “sforna a getto continuo mostre di cassetta, culturalmente irrilevanti e pericolose per le opere. È ora di sviluppare anticorpi intellettuali, ricominciare a fare mostre serie”. Per farlo, credo che sia fondamentale svolgere una ampia e seria ricerca storica e filologica che poi può anche entrare a far parte della mostra mediante documenti, testi e immagini.
Per questa ragione tale ricerca è sempre alla base delle mostre da me curate. Penso ad esempio alla mostra sull’Arte povera a Johannesburg nel 2023 che è stata la prima dedicata a quel movimento nel continente africano, ma penso naturalmente anche alla mostra a Bucharest che accoglie un primo spazio dedicato alla ricostruzione, testuale, documentaria e fotografica, della vita di Ileana Sonnabend e del suo rapporto con gli artisti che viene raccontato anche attraverso storiche fotografie delle loro mostre personali tenutesi alla Sonnabend Gallery.
Seguono poi le sale dedicate alle opere la cui selezione è frutto di una ricerca altrettanto filologica: la mostra è infatti la prima esposizione a livello internazionale che rende omaggio alla gallerista non basandosi sulle opere appartenenti alla sua collezione, ma includendo opere esposte presso la Sonnabend Gallery in occasione delle prime mostre personali di quegli artisti e oggi di proprietà italiana (degli artisti stessi, di musei, fondazioni, gallerie e collezionisti privati italiani) al fine di sottolineare l’ancora forte legame della storia di Ileana Sonnabend con l’Italia.
A conclusione del percorso espositivo è proiettato un documentario video sulla gallerista e l’arte italiana, realizzato per l’occasione da 3D Produzioni, trasmesso anche da La7.
Per quanto riguarda la sua richiesta sul necessario dialogo che oggi dovrebbe svilupparsi tra l’arte povera e le altre correnti a lei contemporanee, ricordo che questo dialogo in realtà c’è stato fin dagli inizi e fin dagli inizi è stato indagato in numerose mostre tenutesi tra il 1968 e il 1970 che hanno incluso opere di artisti dell’Arte povera insieme a quelle di artisti internazionali accomunati da una specifica attitudine.
Tra le molte occasioni espositive basate su questo dialogo ricordo: nel 1968, Prospect 68 allo Städtische Kunsthalle di Düsseldorf e Nine at Castelli presso Castelli Warehouse a New York, nel 1969 Op Losse Schroeven allo Stedelijk Museum di Amsterdam, When Attitudes Become Form alla Kunsthalle di Berna, e soprattutto nel 1970 Conceptual Art Arte Povera Land Art alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, anticipata dal libro Arte povera edito nel 1969 da Mazzotta editore dove accanto agli artisti italiani dell’arte povera erano inclusi artisti stranieri come Carl Andre, Joseph Beuys, Eva Hesse, Richard Serra e molti altri».
Perché l’Arte Povera riesce, ancora oggi, ad ampliare il nostro sguardo?
«Ritengo che quando l’arte è valida (così come lo è l’Arte povera) è di per sé eterna. Solo gli artisti in grado di cogliere lo spirito del tempo (lo Zeitgeist) – che, preciso, è diverso dall’attualità della cronaca –, e, in base ad esso, in grado di formulare un linguaggio nuovo, potente visivamente e concettualmente, e spesso anticipatore del futuro, riescono ad ampliare lo sguardo dell’osservatore in aeternum».