Marianne Heske ha deciso di rivisitare il proprio passato e l’interesse giovanile per la Frenologia. L’artista presenta un nuovo ciclo di opere alla QB Gallery di Oslo, che é il sofisticato update di una porzione del suo archivio personale, con il quale riattiva una serie di lavori legati ai suoi esordi. Negli anni ’70, Heske si era interessata ad una pseudo scienza che aveva attirato la sua attenzione, sui primitivi sistemi di controllo delle funzioni del cervello.
Oggi che i sistemi di intelligenza artificiale sono in grado di insegnare a loro stessi e probabilmente sono in grado di elaborare una grande quantità di dati, Marianne Heske sembra suggerire che la differenza nell’elaborarli é però quella tra conoscenza ed intelligenza.
È attraverso un confronto con A.I., che l’artista ha deciso di ritornare sui propri passi. Londra, Parigi, Amsterdam, Oslo, Tromso, Karaskjok e Marrakesh, i luoghi della sua avventura artistica si trasformano in una rinnovata mappatura delle sue intuizioni. Proprio perché conscia dei contenuti assurdi di quella pseudo scienza, aveva condotto una ricerca, attraverso quelli che erano allora i nuovi media dell’arte concettuale (video e fotografia) con l’intento evidente di opporsi ai fenomeni di massificazione e omologazione, manifestatisi precocemente nella società occidentale.
Una visione ante litteram di ciò che sarebbe successo nella nuova epoca digitale, per la quale l’omologazione entra nella nostra quotidianità, generando piacere e l’assuefazione . Quando pensiamo all’Intelligenza Artificiale immaginiamo lo sviluppo di algoritmi di apprendimento, filtri spam o nuove applicazioni come Instagram o Tik Tok o il riconoscimento facciale per lo sblocco dei nostri smartphone. L’intelligenza artificiale è una tecnologia integrata efficace, per nulla visibile ma sempre attiva ‘sullo sfondo’.
Heske ha lavorato sulla preistoria di questo mimetizzarsi della tecnologia, sottolineando che si stava producendo un problema, dietro lo schermo. Rapporti di forza e potere costituiti e governati da protocolli, software e macchine interagenti, che gli utilizzatori degli schermi non vedono e non controllano nemmeno più.
Proprio paragonando i nostri nuovissimi strumenti allo studio del cervello di qualche secolo orsono, in ambito positivista, é dopo un primo sorriso che ci accorgiamo che in quelle false elucubrazioni frenologiche sulla forma del cranio appare la prima mappature di bisogni, sentimenti, emozioni, in cui affondano le radici i tanti format della nostra epoca digitale.
Le icone delle emoji contemporanee con cui chiudiamo, chiosiamo o con le quali punteggiamo il nuovo ordine dei nostri discorsi, e della nostra comunicazione, altro non sono che le teste senza nome delle bambole di Marianne Heske.
È il motivo per cui l’artista può con successo riappropriarsi dei protocolli del suo stesso passato concettuale. Appaiono allora profetiche, queste sue fotografie, nella rielaborazione dei vecchi formati. Accompagnate dai video e dalle performance rendono palese la sua forza ed il potere della sofisticazione dell’immagine, dei pionieri della video arte.
Nei testi associati al lavoro dell’artista negli anni settanta si insistette molto sull’idea di maschera. È evidente nei nuovi ingrandimenti a colori, di questa mostra nella loro manipolazione analogica, che altro non sono se non la forma germinale di tutte le pratiche digitali, utilizzate dall’artista negli anni successivi.
È la digitalizzazione che contribuisce in misura eccezionale alla trasformazione della vita stessa in una struttura di dati. Tutto può essere incarnato e visualizzato – con l’aiuto di interfacce. Ora però, la bambola, la marionetta ed il collage non sono più utilizzati per originare maschere ma per incarnare contemporanei avatar. La loro funzione simbolica si adatta ad un’altra epoca.
La differenza tra coscienza ed intelligenza é tutta qui sembra suggerire Marianne Heske, con una pratica artistica costantemente venata di umorismo. Non é così remota l’ipotesi che l’artista esista proprio per proporre, a dispetto della scienza, le ipotesi più corrette a sostenere la trasformazione del cosmo in informazione o a ricordarci che siamo tutti probabilmente posseduti da un personalissimo algoritmo.
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