Proprio come niente fosse. Passeggiavi per La Spezia, capitavi nella galleria il Gabbiano e magari «Philip Corner lo trovavi lì a chiacchierare». Perché «Il Gabbiano era discussione» continua a raccontare quell’insostituibile donna-aneddoto che è Mara Borzone, tra le attiviste di uno spazio che in città – e non solo – ha segnato un’epoca.
Una parabola inaugurata nel 1968 e chiusa nel 2018, dopo 50 anni tondi tondi. Perpetuare l’esperienza in termini culturali e umani di un luogo del genere è un dovere morale. Rimettere mano alla sua storia invece, fatta di parecchi lustri e moltissimi artisti venuti da tutte le parti del globo, è un atto d’amore. Ma anche di eroismo, visto che al CAMeC s’è scelto di introdurre una ricostruzione pressoché filologica, esponendo solo opere effettivamente passate per le mura de Il Gabbiano. Tra collezioni private e non solo, rintracciarle è stato un lavoraccio.
Con la curatela di Mario Commone, tra i protagonisti dell’ultimo periodo di attività della galleria; il contributo della già citata Borzone assieme a Francesca Cattoi, Cosimo Cimino, Lara Conte e Marta Manini, il Gabbiano riprende quota. Un po’ per ricordare, un po’ per far vivere quegli anni di movida artistica anche a chi se li è persi. Attraverso l’arte. La galleria Il Gabbiano 1968-2018. Cinquant’anni di ricerca artistica è la mostra che in 4 sale, più una project room e annesso corridoio, fa un riassunto degli anni trascorsi tra incontri e discussioni ad arte; dentro le quattro mura di quello che Commone ricorda come «Un vero e proprio white cube».
«L’ubriacatura» – ovvero un display in stile quadreria, perciò piuttosto carico – di cui parla Commone è inversamente proporzionale al minimalismo su cui, a detta dello stesso curatore, erano improntate le mostre che Il Gabbiano proponeva ai tempi. Ma un’occasione del genere merita – e necessita – opulenza. E un’anticipazione che sia allo stesso livello: una “nuvola” di cartoline invito (digressione: per il “vernissage” o “l’opening”? No, nel ’68 si chiamava ancora “vernice”, con tanta desueta autarchia), installate in una parete che accavalla cronologicamente artisti d’ogni estrazione, da Sol Lewitt a Riri Negri. La storia densa, di uno spazio altrettanto denso di contenuti, non poteva che essere messa in scena così, rimpinzando lo spettatore di lavori che raccontano di un luogo che ha fatto la storia dell’arte. Per il quale la storia dell’arte non rappresentava un cumulo di scatole ermetiche.
Quella di una storia dell’arte “fluida” è una visione alimentata anche dai rapporti con molte altre realtà espositive, e dalla rete di amicizie personali cucita dai suoi tanti protagonisti. Non stiamo qui a fare l’appello. Rimandiamo infatti a quei bei pannelli narrativi presenti ad ogni sala: lì, dettagliata come richiede una lettura meta-artistica, la storia de il Gabbiano intreccia quella di chi ha saputo far incontrare sotto lo stesso tetto la poesia visiva di Anna e Martino Oberto, di Rodolfo Vitone, col Fluxus di Ben Vautrier. Toccando anche il rapporto tra arte visiva e sonora, venendo prima dalla Nuova Figurazione, dalla Pop Art e dall’Optical.
Tra la nascita di un progetto e l’altro, quelle mura si presero la briga di ridefinire i confini economici del collezionismo. Parte del suo ruolo sociale Il Gabbiano l’ha espresso anche proponendo mostre di grafica (in un arco di tempo compreso tra il 1973 e il 1985), che nel concetto di multiplo esportano un prodotto artistico alla portata di tutti. In mostra le litografie di Edo Murtić sono traccia di quel progetto; in una parete che l’artista croato divide con uno dei famosi Cromogrammi di Renata Boero, per una comune – ma tecnicamente diversa – idea di arte visiva come processo indiretto.
Nel pieno di un tripudio espositivo sa di canto del cigno, più che volo del gabbiano, l’installazione presentata nella project room: 50 bandiere per 50 artisti per 50 anni. Replica di un must che ha caratterizzato la galleria negli ultimi 26 anni: le collettive a tema. E chi ha avuto l’idea delle collettive a tema? Lei, la leggendaria Borzone.
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