Bob and Roberta Smith (Reading, Regno Unito, 1963). Dietro questo pseudonimo di coppia – che ha ottenuto un Master al Goldsmiths College dal 1991 al 1993 e la cui opera Make Art Not War è parte della collezione della Tate di Londra – si cela un singolo individuo a introdurre una riflessione su l’artista e il suo doppio, su autobiografismo, vero o fittizio, e sulla messa in crisi del concetto di autorialità. Li abbiamo incontrati in occasione della loro mostra alla galleria A Sud di Pescara per approfondire questa dicotomia, per conoscere la loro visione dell’arte, sospesa tra ironia e serietà e sempre con un’attenzione rivolta alla dimensione pubblica, e per alcune considerazioni sul sistema e sul panorama artistico italiano.
Da cosa deriva, come artista singolo, la scelta del nome di una coppia, Bob e Roberta Smith, e il conseguente sdoppiamento di identità?
Negli anni ’90 volevo mettere in discussione l’identità dell’artista. Perché? Beh, perché iniziava la tendenza a fare dell’arte una questione di identità personale e autobiografia. Naturalmente capisco che l’identità è importante, ma è anche molto soggettiva. L’arte sull’identità accentua le qualità straordinarie di un artista e può allontanare l’idea dell’artista come persona comune. Io mi sento abbastanza ordinario e non straordinario, e voglio che tutte le persone che ne hanno voglia possano fare arte ed esserne felici. Così ho creato un “artista-uomo comune” con un nome tipicamente britannico e noioso: Bob Smith.
Cosa comporta, secondo te, nella percezione del tuo lavoro?
Volevo che altri facessero arte per noi e volevo che donne e uomini si impegnassero ad adottare lo pseudonimo di Bob e Roberta. Così nasce Bob con una sorella fittizia, Roberta. Per un breve periodo, una coppia in Giappone e un’altra in Germania si sono spacciati per Bob e Roberta e hanno realizzato i loro progetti con il nostro nome. Era un modo per sovvertire la nostra unicità e mettere in discussione uno dei luoghi comuni dell’arte, secondo cui gli artisti sono generalmente dei geni.
In Inghilterra ti sei occupato di arte pubblica. Quanto pensi sia importante poter fruire dell’arte al di fuori dei musei?
I musei sono luoghi importanti e vitali in cui vedere opere d’arte, ma l’arte esiste ovunque. Ho realizzato opere in spazi pubblici e privati, anche nel mio studio per esempio. Uno dei miei progetti l’ho realizzato nella città di Folkestone, che ho dichiarato fosse una scuola d’arte: l’idea era che tutto ciò che accadeva in città fosse a tutti gli effetti arte. Ho sempre pensato che è importante ampliare le definizioni. Non voglio creare una nuova definizione di “arte pubblica”, ma sono un artista che lavora nel pubblico. In questo senso, la mia arte è “là fuori” e “con noi”. Per “noi” intendo gli intellettuali pubblici, e per questo “arte nel pubblico”.
Quali sono i tuoi artisti di riferimento?
Ho conosciuto James Lee Byers alla Biennale di Venezia del 1993. Distribuiva piccoli adesivi dorati con su scritto “La tua presenza è la tua migliore performance”, un’idea che sembrava definire ciò che pensavo in quel momento. Mi colpisce molto un’arte urgente di una sorta di dolore. L’opera di Gustav Metzgar mi parla della sua assoluta necessità. L’arte di Metzgar racconta di lui bambino e dell’essere riuscito a salvarsi dall’Olocausto. Amo anche l’opera di Maurice Blik: aveva solo 4 anni quando è sopravvissuto a Belson. Per me le sue sculture di figure che camminano sono una delle più grandi lavori realizzati nell’età moderna. Negli anni ’90 l’artista più importante per me non era un artista visivo, ma Mark E. Smith della band The Fall. Il suo lavoro con le parole è un’ispirazione continua.
Come descriveresti la tua pratica e poetica?
Con l’avanzare dell’età, sono diventato più serio. C’era una sorta si gioiosa impertinenza nel lavoro di Bob e Roberta che ora non utilizzo più. Ho realizzato un’opera che era la trascrizione di un’intervista radiofonica al chirurgo di guerra David Nott, attualmente esposta al National Museum of Wales. Questo lavoro è doloroso da leggere e straziante, fa piangere. Sono passato dal far ridere le persone a farle piangere.
Hai inaugurato una personale nella galleria A Sud di Pescara. Cosa presenti in questa mostra e come si inserisce nel tuo percorso artistico?
Far ridere, far piangere. Sposare un inglese è divertente, è dolce… Innamorarsi in una galleria d’arte… che sia un buon uso dei musei? Ma è anche una cosa seria… La Brexit separa le persone e le famiglie, distrugge il possibile e sostituisce le vie d’accesso con le barriere. La Brexit è una stupidità politicamente ripugnante che offre una falsa soluzione a un problema creato di sana pianta e fittizio. Sto suggerendo ai giovani di sposarsi a livello internazionale per “evitare” la Brexit. Ciò che unisce gli esseri umani è enorme e meraviglioso, ciò che ci divide è piccolo e meschino. Ho citato Metzgar e Blik. La loro arte è estrema perché la politica del loro tempo era diventata insopportabile. Temo che un futuro insopportabile attenda il Regno Unito. In Ucraina l’insopportabile è diventato il presente. Penso che gli artisti che lavorano nel pubblico facciano parte di una risposta democratica ai politici che vogliono rinchiudere le persone, costruire barriere e finire per uccidere gli altri.
Conosci il sistema e il panorama artistico italiano?
Ho vissuto a Roma per due anni negli anni Ottanta. Sono tornato molte volte in Italia per esporre alla Galleria Carbone di Torino e poi a Pescara e a Roma per lavorare con Cesare Manzo. Non so molto del sistema dell’arte in Italia, ma il mio lavoro in Italia ha un buon riscontro.
Ti sei fatto un’opinione di cosa si dovrebbe fare qui per l’arte contemporanea?
Gli italiani capiscono che anche nell’arte che sembra dolce, gioiosa, giocosa c’è tristezza… è kitch ma ha sempre del vero, che si ritrova nell’opera e in Fellini. Fatemi diventare famoso in Italia per favore! L’ambizione di Cesare Manzo di creare festival d’arte contemporanea a Pescara sotto il nome di Fuori USO è stata notevole. Ha fatto incontrare gli artisti e ha aperto nuovi futuri. La mia presenza a Pescara con la galleria Sud è solo una piccola parte della sua eredità. Manzo era un uomo complicato, ma l’Italia dovrebbe sostenere persone come lui, perché hanno il coraggio di fare grandi mostre importanti.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
A giugno uscirà un libro per bambini con Quarto Press. Si intitola Art makes people powerful (“L’arte rende potenti le persone”). È pieno di cose da fare nell’arte con i bambini. Le materie artistiche nelle scuole del Regno Unito sono sotto attacco a causa dei tagli del governo. Io sono contrario. Tengo molto alla ricca tradizione di istituti e università d’arte del Regno Unito, ma tengo ancora di più all’arte nelle nostre scuole. Spero che il mio libro ispiri insegnanti e genitori a dare matite e colori ai loro figli e a far sì che sviluppino la propria voce attraverso l’arte.
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