Ballad for Ten Trees: intervista a Massimo Bartolini in occasione della sua performance a Venezia

di - 11 Maggio 2024

Il progetto espositivo Due qui / To Hear per il Padiglione Italia alla Biennale Arte 2024 è accompagnato da un articolato Public Program, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura e curato da Luca Cerizza. Il primo evento che esce dagli spazi istituzionali è quello in calendario domani domenica 12 maggio all’interno del Parco Internazionale di Scultura di Villa Fürstenberg a Mestre, spazio espositivo di Banca Ifis, sponsor del Padiglione Italia. Per questo contesto Massimo Bartolini ha concepito una nuova performance sonora, Ballad for Ten Trees, che è estensione e ridefinizione di una delle sue opere più rappresentative, Ballad for a Tree.

In Ballad for ten trees, l’artista produrrà una nuova visione sul luogo: dieci sassofonisti popolano il giardino di Villa Fürstenberg, all’interno del Parco di Banca Ifis ideato e fondato dal Presidente dell’Istituto, Ernesto Fürstenberg Fassio e curato da Giulia Abate e Cesare Biasini Selvaggi, producendo altrettanti diversi assoli. La performance, con la curatela di Luca Cerizza, è la profonda risemantizzazione di un’opera già presentata in diverse configurazioni, come nel caso di Ballad for a tree, in cui il sassofonista Edoardo Maraffa (che coordina, anche in questo caso, l’intero ensemble) ha suonato per un unico albero di fronte al Centro Pecci di Prato in occasione dell’apertura della mostra Hagoromo nel 2022.

Massimo Bartolini, Ballad for a Tree , 2008, performance, Micamoca (Mariano Pichler collection), Berlino. Rudi Mahall Clarinetto Basso. Foto © Nick Ash

L’immateriale pervade l’ambiente della performance, che si fonda su un dialogo serrato tra uomo e natura, costruito e spontaneo. Dieci sassofonisti irradiano con la loro musica il parco di Villa Fürstenberg, cercano di essere ascoltati dagli alberi. Persiste l’eco leopardiano della natura indifferente nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. In che modo la pratica dell’ascolto appare così necessaria?

«È interessante il riferimento alla poesia italiana che hai fatto, perché fondamentalmente io non credo che la natura sia una matrigna indifferente: i nostri atti modificano la natura stessa. Ballad for ten trees è un’immagine che mostra un tentativo di comunicazione con qualcosa di non umano; una persona guarda un’altra persona che tenta di comunicare con un’altra entità biologica. Nella musica non c’è una distanza ermeneutica necessaria alla vista e allo sguardo: colpisce, è messaggio, movimento, urto. Una volta urtati il corpo trasmette e il cervello processa. La musica è qualcosa che condividiamo in maniera corporale e ciò che la musica produce, con e verso la pianta, è qualcosa che la pianta sente, percepisce. Non posso dire dove questo suono si diriga, ma c’è uno scambio. In particolare, la musica eseguita è specifica e fa riferimento al jazz improvvisato. In realtà, è tutto un lavoro sul respiro, sul fiato, qualcosa che si condivide con le piante, che produrranno nuovamente ossigeno dal fiato del sassofonista. Entrambi condividono questo rapporto di inspirazione ed espirazione».

Il suono in simultanea di queste figure costruisce una profonda Polifonia visiva: lo spettatore si muove nell’ambiente, lo attraversa avvicinandosi prima ad uno, poi all’altro, per scoprire, in ogni sua collocazione, una differente percezione dell’intera opera. Lo spazio costruisce relazioni, crea slittamenti di significato e cortocircuiti che minano le sue certezze e la sua sicurezza. In che modo alterare la percezione dell’individuo produce, in un certo senso, una trasformazione? Considerato anche il fatto che spesso, nella sua produzione, rimodula opere in differenti configurazioni nel tempo.

«Alterare la percezione. Ci sono persone che ci riescono con più conoscenza ed efficacia rispetto a quello che faccio io. Per me, l’alterazione è un escamotage per costruire un piano sopra il quale la comunicazione possa avere luogo. Già chiedendo alle persone di entrare in una stanza, una alla volta, si alimenta un processo, un dispositivo, dove c’è un certo tipo di percezione. Oltre a lavorare sulla fisicità, cerco una base in quella impalpabile forma della storia, del narrato. Il corpo cambia, anche nel contesto di una mostra. Emerge però una differenza sostanziale: una mostra d’intrattenimento è qualcosa che vuole assicurare che quello che si vede, in realtà, esiste solo in quel momento. Il visitatore entra con la sua vita, la sua quotidianità e ne esce irrimediabilmente identico. Una mostra d’arte ha la pretesa di modificare qualcosa nelle persone. La riuscita della mostra è la mostra stessa: come risuona, come è cresciuta, come è nella riflessione delle persone. Attraverso la storia narrata anche al corpo, altera il corpo stesso (mente inclusa questa volta)».

Nel pensare alla domanda precedente, ho ripercorso un passaggio della Dialettica dell’illuminismo di Adorno. L’opera d’arte è come il canto delle sirene, che desta l’individuo dal sonno borghese della ragione per aprire la sua mente a ciò che non è consumabile. Mi sembra che la sua opera produca lo stesso effetto: lei modifica architetture fisiche che sono, fondamentalmente, architetture mentali. Come questa prospettiva indaga e approfondisce il rapporto tra individuo e natura? E quale è l’essenza di questa relazione ineludibile?

«Nella performance ci saranno questi sassofonisti, dieci strani uccellini, che costruiranno una specie di tentetto armonico. Il suono sarà sbalzato da una parte all’altra e il luogo sarà essenzialmente modificato. Spesso dimentichiamo che l’architettura è anche il suono in cui è immersa. Ballad for ten trees aggiunge degli strumenti a un luogo che già di per sé possiede un suo paesaggio sonoro preciso. Noi umani ignoriamo il paesaggio sonoro condiviso con altre specie, e non solo, costruiamo spazi specifici per isolarci da tutto il resto. Ci assicuriamo che nulla che sia non umano possa entrare in questo paesaggio, mentre tutto viene dalla natura: a partire dal legno dei violini che suonano in concerto. Invece suonare all’aperto ha un suo riferimento alle  bande di paese, che sono una ricorrenza precisa e tutta umana. La musica improvvisata è invece un respiro che si colora, non per via delle parole, ma grazie agli incontri e scontri d’aria che questo strumento, il sassofono, produce, assomigliando molto a un apparato perché possiede un’ancia, molto simile alla laringe. Ha una voce, qualcosa che cambia a seconda del clima, della disposizione rispetto all’albero, della giornata. Dieci performance davanti allo stesso l’albero non saranno mai le stesse: esprimono una mutevolezza e una responsività rispetto a ciò che ci circonda».

Una metafora stessa del ruolo dell’arte. La sua performance, maestro, ci mostra quanto sia estremamente semplice comunicare e così tremendamente difficile ascoltare. Byung-Chul Han, all’interno della Scomparsa dei riti (Nottetempo, 2021), arriva a parlare della contemporaneità come di un’epoca della comunicazione senza comunità: l’ipertrofia informativa ha soppiantato la costruzione dei rapporti umani ed è presente solo un grande baccano disarmonico. La sua performance combatte questo caos, costruendo un’armonia. Ma dunque, quale è la natura della comunicazione, nella contemporaneità?

«Quel poco che si può fare è innestare, istigare nuove storie e nuove narrazioni, modi nuovi, altri, per raccontare quello che uno vede. La comunicazione senza comunità che hai citato è sicuramente un dato di fatto: il virtuale è qualcosa che non crea comunità; riguarda l’osservare con un occhio solo, non si vede lo stereo, mentre il corpo vuole la sua parte. “Il virtuale” è mono e produce parzialità unidimensionale, e se una comunicazione è parziale lascia spazio alla manipolazione. La mancanza della comunità è qualcosa che è stato fomentato, agevolato, dalla vittoria schiacciante del modello capitalista, dove è stato trasformato a scopo di lucro il concetto di libertà con liberismo. Oggi, Libertà è una parola minacciosa, dalla quale guardarsi bene: pensi di poter essere libero di esprimere un’opinione mentre queseta viene sfruttata per la profanazione e il controllo della tua vita. Per ascoltare invece non si deve esprimere libertà.  L’ascolto è qualcosa da fare con gentilezza, con pacatezza: non si deve fare rumore, non ci si deve muovere troppo. Va contro i dettami della società, contro l’idea stessa di progresso: fermarsi, pausa, non fare rumore, non produrre attriti… Ballad for ten trees vuole inserire un nuovo suono in quel bosco dove dieci animali estranei ne modificheranno la composizione. “Stanno bene con il rumore del traffico” potrebbero dire i passanti. In questo lavoro c’è un aspetto visivo importante, dove oltre a sentire si vede, per cui il suono non è ambientale ma puntiforme. La dispersione dei musicisti fa si che passeggiando il pubblico componga la sua propria sequenza, componendo dunque la propria musica: un aspetto completamente libero, in cui anche il suono è influenzato dagli agenti atmosferici».

Questa necessità di ascoltare appare evidente anche dal titolo del progetto, curato da Luca Cerizza, del Padiglione Italia per questa edizione della Biennale di Venezia. Due qui / To Hear si propone come stimolo al gesto, all’azione: protendersi all’altro per considerare la sua stessa presenza. In un certo senso, i dieci sassofonisti chiedono di essere ascoltati. Quale è il profondo legame tra la performance, il Padiglione e l’impostazione di questa edizione della Biennale, curata da Adriano Pedrosa?

«Stranieri Ovunque è un argomento molto ampio e rischia facilmente di essere frainteso. Personalmente, più che sentirmi straniero, io provo una sorta di estraneità. Noi siamo una cultura dalla forte attrazione visiva e il mondo dell’ascolto è qualcosa a cui non siamo abituati, lo mettiamo in secondo piano, come fosse accessorio. Negli ultimi anni, da quando è stato più facile campionare il suono grazie agli strumenti che lo hanno reso permanente, ha iniziato invece a diventare importante. È diventato archiviabile, e da lì in poi si è sviluppato un processo che ha reso l’ascolto più percepibile. Mi piace sempre fare un esperimento con i miei studenti, che ho tratto dagli esercizi di Rober Murray Schafer: mi faccio dare le chiavi di casa e, con loro voltati di spalle, le suono una alla volta. Tre quarti di loro riconosce il suono delle proprie chiavi e questo dimostra quanto l’udito sia pervasivo e orientante con sottigliezza. L’estraneità a cui mi sembra faccia riferimento Pedrosa è anche geo-politica, mentre io mi riferisco a un’estraneità relativa al singolo: io sono estraneo nel mondo nel quale vivo, non percepisco che una misera parte di ciò che c’è da percepire. Come diceva Stratos, “il suono è questione di cavità”: bisognerebbe considerare anche il risuonare prossimo delle proprie cavità. L’organo: il corpo come luogo in cui il suono risuona. Il suono funziona come anticipazione rispetto al corpo. Questo forse sarebbe un altro argomento interessante: quanto ci è estraneo il nostro corpo?».

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