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Basquiat icona a Parigi: 400 opere esposte in due grandi mostre nella capitale francese
Arte contemporanea
Parigi celebra Jean-Michel Basquiat con oltre 400 opere tra pittura, musica, grafica, collage, film, foto, installazioni, oggetti e documenti, che lo vedono con Andy Warhol, Keith Haring, Maripol o Madonna, lungo un doppio percorso espositivo senza precedenti che va dalla Fondation Louis Vuitton al Musée de la musique-Philharmonie di Parigi. 160 tele a quattro mani realizzate in soli dodici mesi. Da chi? Si tratta di Basquiat (1960-1988) e Warhol (1928-1987) che dal 1984 al 1985 hanno collaborato grazie a un’idea del loro comune gallerista Bruno Bischofberger.
Ben 70 tra queste sono nella mostra Basquiat x Warhol, à quatre mains, incluse 16 realizzate con Francesco Clemente, per un totale di 300 opere e tanti documenti alla FLV, fino al 28 agosto. È nella scena artistica della downtown newyorchese degli anni ‘80, che nasce l’amicizia e la collaborazione artistica tra Basquiat e Warhol. Tutto ha inizio con uno scatto di Polaroid che li ritrae insieme, a cui segue Dos cabezas, il quadro di Basquiat che s’ispira alla foto con Warhol (Andy Warhol, Self Portrait with Jean-Michel Basquiat, 4 ottobre 1982). L’istantaneità del dispositivo rivela un momento unico e bello per la spontaneità delle pose colte in una luce non alterata, in dialogo con il tratto vitale e icastico di Basquiat.
Seguono Portrait of Jean-Michel Basquiat as David di Warhol e Untitled (Andy Warhol with barbells) del 1984, ma anche i quadri con Francesco Clemente, vedi Origin of Cotton (1984). Un dipinto in cui emerge un fiore serigrafato di Warhol, le figure di Clemente, e l’arcinoto slogan Origine del Cotone di Basquiat che guarda alla storia degli africani-americani marcata dalla schiavitù e dal razzismo. In Arm and Hammer II (1984-1985), c’è il marchio dell’omonima ditta apposto da Warhol che si confronta con la figura di Charlie Parker, o quello della Paramount (1984) con testo, cartine geografiche e numeri di Basquiat. È negli ex locali della Factory, uno spazio transitorio e vuoto dovuto al trasloco dell’atelier di Warhol nella 33rd Street, che i due artisti crearono le loro più belle opere, come African Mask (1984). Si tratta di una tela di ben dieci metri che celebra la cultura africana e la sua eredità spirituale con maschere e volti che si stagliano su uno sfondo multicolore.
Notevole è la serie fotografica di Michael Halsband – vedi la locandina della mostra Warhol-Basquiat Paintings alla galleria Tony Shafrazi nel 1985 – qui in dialogo con Ten Punching Bags (Last Supper). L’installazione in cui Warhol dipinge su sacchi da boxe il volto di Cristo, clin d’œil all’Ultima cena di Leonardo da Vinci, mentre Basquiat vi scrive Judge, rievocando la gloria oltraggiata dall’ingiustizia sociale dei pugili africani-americani. Durante lo shooting Michael Halsband ha scattato 180 fotografie con Warhol e Basquiat (New York City, 10 luglio 1985) in guantoni da boxe e shorts, e per questa esposizione lui stesso ne ha selezionate 80, di cui 68 sono esposte per la prima volta. Seguono quadri capitali quali 6,99 (1985), Felix the cat (1984-1985) o Mind energy (1985). In questi lavori a quattro mani non è difficile indovinare chi ha fatto cosa, ma la forza di questo duo d’eccezione sta proprio nel creare una fusione di idee e di intenti nello spazio della tela e creare un nuovo vocabolario visivo.
L’esposizione è curata da Olivier Michelon, Anna Karina Hofbauer e da Dieter Buchhart, che ha posto l’accento sull’immagine obsoleta del creatore geniale e solitario, quando giovani artisti di discipline diverse collaboravano tra loro già negli anni ottanta. Lo storico dell’arte e curatore austriaco cita Nick Rhodes, tastierista dei Duran Duran e amico di Basquiat e di Warhol, che a sua volta vede nell’unione di questi due talenti un’esplosione di colore ed energia. Si parla ancora di musica. Dove? Al Musée de la musique-Philharmonie de Paris che ha organizzato Basquiat Soundtracks, la prima esposizione dedicata alla relazione dell’artista con la musica attraverso un centinaio di opere, fino al 30 luglio. Curata da Vincent Bessières, Dieter Buchhart, Mary-Dailey Desmarais e con la collaborazione di Nicolas Becker, compositore e ingegnere del suono, che ha elaborato un sottofondo musicale con l’ausilio di Bronze, un software pionieristico capace di mixare oltre cento titoli a seconda dei temi della mostra. Qui si scopre che l’artista aveva una collezione di oltre tremila dischi di musica classica, rock, zydeco o jazz, e che suonava il clarinetto e il sintetizzatore nel gruppo sperimentale Gray fondato nel 1979 con Michael Holman.
Un’immersione sonora che svela la scena newyorkese di quegli anni tra critica sociale, arti figurative e tanta musica, per un mix esplosivo che cattura dall’inizio alla fine. Si va dall’emissione televisiva Tv Party, alla quale Basquiat ha partecipato regolarmente dal 1979 al 1982, al nightclub Area che nel 1985 organizza una collettiva in cui c’è Klaunstance, un’installazione dedicata a Charlie Parker. Non manca la cultura hip-hop e l’amicizia con il rapper Rammellzee per il quale Basquiat ha realizzato la copertina, la busta interna e l’etichetta del brano rap Beat Bop (1983), mentre il jazz lo troviamo in Red Joy (1984), un collage che guarda a Miles Davis, Charlie Parker e Max Roach, e tanto altro ancora. Musica anche in Untitled (Sheriff) del 1981, un lavoro sulla violenza con suoni restituiti dalla ripetizione di vocali. Questo dipinto è rimasto per mesi appeso dietro il bancone del Club 57 nel Lower East Side (testimoniato dallo scatto di Lina Bertucci), un locale frequentato da Basquiat, Klaus Nomi o da Kenny Scharf. Uno squarcio sulla cultura post-punk a Manhattan è ritratta nel film Downtown 81 (73’), scritto da Glenn O’Brien e diretto da Edo Bertoglio. Girato in due mesi, tra il 1980 e il 1981, riprende il Radiant Child, Diego Cortez, Vincent Gallo, Arto Lindsay, Fab Five Freddy, Eszter Balint, Roberta Bayley o Blondie.
L’artista newyorchese celebra la creatività artistica nera e l’eredità della diaspora africana, ma evoca anche la figura dell’eroe in una serie di dipinti della fine degli anni ‘80, come in Eroica I ed Eroica II (collezione di Nicola Erni). Un titolo che si riferisce alla terza sinfonia di Ludwig van Beethoven e che ritroviamo già scritto nella fitta opera grafica Pegasus (1987). Ricordiamo che il compositore tedesco aveva dedicato il suo lavoro inizialmente a Napoleone, prima che questo si autoproclamasse imperatore e abbandonasse gli ideali della Rivoluzione francese, reintroducendo tra l’altro la schiavitù nelle colonie francesi. Dominato dalla mercificazione, dalla morte e dalla paura di questa, l’artista usa qui l’allitterazione con termini presi dal gergo africano-americano, e trascrive più volte ‘Man Dies’ accompagnato dal numero 15 o da un segno a mo’ di stelo tripode. Che vuol dire?
Si può ipotizzare che rimandi alla runa della morte, Algiz, che si trova inoltre al 15esimo posto nell’alfabeto runico, che sarebbe poi quello usato nel simbolo della pace. Basquiat ha disegnato altre volte questo segno ma capovolto, ossia Elhaz, la runa della vita. L’opera di Basquiat offre una marea di simboli, evocativi ed enigmatici, questi guardano ai geroglifici o al linguaggio codificato degli Hobo, dei lavoratori statunitensi itineranti e senza fissa dimora che adottano un sistema di segni per comunicare tra loro sin dagli anni trenta. Di fatto qui ci parla della tragicità dell’esistenza umana e in particolare della perdita del suo amico Andy Warhol, così come nell’installazione Gravestone (1987) alla Fondation Louis Vuitton. Due magnifiche creazioni che chiudono un doppio itinerario appassionante su un eroe urbano del nostro tempo. Qualcos’altro? West Side / East Side, un evento congiunto che, dal 30 giugno al 2 luglio, permette di visitare le due mostre con un solo biglietto e di assistere a svariati intrattenimenti musicali.