Manifesto of fragility è il titolo della 16a Biennale d’Arte Contemporanea di Lione che apre con 90 artisti contemporanei internazionali, due mostre con decine di artisti di tutti i tempi, undici luoghi di esposizione e tanti lavori in situ. Creata nel 1991 da Thierry Raspail e Thierry Prat, e diretta dal 2019 da Isabelle Bertolotti, questa rinomata manifestazione culturale ha sviluppato da sempre collaborazioni con musei e enti culturali internazionali oltre che con artigiani e aziende locali, e questa edizione non fa difetto su questo punto. I curatori, Sam Bardaouil e Till Fellrath hanno attinto con ingegnosità e originalità da collezioni private e archivi museali locali, regionali e internazionali come il Lugdunum Musée et théâtres romains di Lione, il Centre Pompidou, The Metropolitan Museum o il Staatliche Kunstsammlungen Dresden, per elaborare un manifesto della fragilità e della resistenza che gli artisti partecipanti hanno contribuito ad accrescere con creazioni in situ audaci e parlanti.
Le opere si espandono a macchia d’olio sul territorio urbano, cioè nei luoghi della cultura ma anche in parchi e giardini per raccontare storie collettive e individuali, rivelare situazioni politiche e sociali e affrontare le questioni di genere. Tutto rigorosamente contemporaneo presso l’ex fabbrica Fagor che accoglie video, scultura, pittura, disegno, fotografia, performance, teatro e danza. Questo spazio di 29mila mq è punteggiato da Intervento spaziale per Fagor, un’installazione in situ di Olivier Goethals (1980, Torhout in Belgio), composta da ponteggi elevati e ricoperti da materiale riciclabile nonché da container che legano tra loro le opere o le accolgono. Una struttura che rimanda al trasporto e all’instabilità ma che al contempo traccia percorsi, disegna delle prospettive e offre nuove possibilità di relazionarsi con l’ampiezza degli spazi.
Gli artisti partecipanti spaziano dalla bravissima Giulia Andreani (1985, Venezia), qui con due piccoli acrilici su tela in grigio di Payne cioè Diavoletta (2022) e HH (2022) che sta per Hannah Hoch, l’artista dadaista tedesca. Andreani, in corsa per l’attuale Prix Marcel Duchamp, evoca storie prese da archivi, foto o film per dargli un nuovo impulso. Un gigantesco e significativo memento mori con We Were the Last to Stay, nell’installazione in situ di Hans Op de Beeck (1969, Turnhout in Belgio), che vede un campeggio fatiscente e abbandonato interamente grigio. Senza sfumature, questo colore unico – che rinvia alla cenere – ricopre una statua di Santa Rita, tavoli, giocattoli, biciclette, frutta, pane o erba per un’immersione totale in cui si smarriscono i punti di riferimenti. Sarah del Pino (1992, Lione) presenta Amosite (video, 21’00’’, 2022), un ottimo lavoro intorno all’amianto in cui esamina i fenomeni di contaminazione e invita il pubblico ad interrogarsi sulla sua presenza nell’ex Fagor. Il video è presentato in uno spazio chiuso, a mo’ di paesaggio lunare, insieme a una testa in ceramica vetrificata Cofalit, un materiale ottenuto dalla fusione di rifiuti di amianto. Joana Hadjithomas e Khalil Joreige (1969, Beirut) con Where Is My Mind? (2020, 3 video HD sincronizzati), portano una video installazione composta da sequenze di immagini di antiche statue senza testa o volti privati del corpo che sfilano su bei versi del poeta greco Giorgos Seferis, per un viaggio nella fragilità umana davanti al tempo. Belle le foto in gran formato di Taryn Simon (1975, New York), in cui ritrae composizioni floreali che abbelliscono i tavoli dei firmatari di accordi politici, di trattati o decreti per rivelare la messa in scena del potere, ma soprattutto di promesse non mantenute. Esemplare il lavoro della compagnia teatrale Organon Art Cie diretta da Valérie Trebor e Fabien-Aïssa Busetta, che invita a riflettere sulle condizioni e le forme possibili del vivere in collettività. Presenta qui un’installazione multimediale intorno alla riscrittura de Le Supplici di Eschilo e che ha visto la partecipazione attiva di giovani lionesi.
Un bel tuffo nella storia ce lo regala il macLyon che accoglie l’esposizione Les nombreuses vies et morts de Louise Brunet in cui si percorre, tra opere classiche e autori contemporanei, la vita un po’ vera e un po’ inventata di una sconosciuta filatrice di seta della Drôme, Louise Brunet, che nel 1834 intraprese un avventuroso viaggio verso il Libano. Beyrouth et les Golden Sixties è una bellissima mostra che si disloca su due piani del macLyon, e che ci fa rivivere la pittura, la scultura o il disegno, come la politica, l’emancipazione femminile, la società libera, elegante e creativa della Beirut fino alla guerra civile scoppiata nel 1975. Tantissime altro da scoprire nel focus sulla Biennale di Lione nel prossimo onpaper.
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