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Biennale di Sydney, i diecimila Soli dell’arte illuminano le emergenze globali
Arte contemporanea
di Simona Maggi
La Biennale di Sydney, per la sua 24esima edizione, visitabile fino al 10 giugno 2024, in concomitanza con il suo 50mo anniversario, celebra il calore e lo splendore di 10mila Soli che illuminano un radioso futuro collettivo, reso possibile grazie alla forza e alla resistenza della comunità umana. Ten Thousands Suns è infatti il titolo scelto dai curatori Cosmin Costinaș e Inti Guerrero: «Il punto di partenza è il riconoscimento di molteplici culture e cosmologie che da sempre legano il mondo al Sole. […] Una molteplicità di “Soli” evoca un mondo rovente già concepito sia in diverse cosmologie e soprattutto nel nostro momento di emergenza climatica. Ma questa immagine trasmette anche “la gioia solare” delle molteplicità culturali, […] nonché la gioia dei carnevali come forma di resistenza in contesti che hanno superato l’oppressione coloniale».
La Biennale lavora dunque su differenti prospettive, riconoscendo la profonda crisi derivata dallo sfruttamento coloniale e capitalistico, rifiutando di concedersi a una visione apocalittica del futuro ma, al contrario, enfatizzando il potere collettivo di fronte a situazioni potenzialmente sconvolgenti (quali i disastri ambientali, la crisi dell’AIDS, nonché il pericolo del “sole nucleare”). Un canto di speranza che si esprime soprattutto attraverso le voci dei molteplici e identitari popoli aborigeni che hanno abitato i territori australiani fino all’arrivo degli europei nel XVIII secolo.
I 96 artisti provenienti da 47 Paesi differenti hanno realizzato opere d’arte dinamiche e installazioni di grandi dimensioni, collocate in sei diversi luoghi espositivi: Art Gallery of New South Wales, Artspace, Museum of Contemporary Art Australia e per la prima volta alla Chau Chak Wing Museum dell’Università di Sydney, alle UNSW Galleries e all’iconica White Bay Power Station. Tutti gli spazi espositivi sono uniti dai dipinti di giocosi bancomat colorati, realizzati dell’artista sorda e non verbale Manyjilyjarra Doreen Chapman. Questo gesto mette in primo piano le voci indigene e forse offre alle opere della Biennale una forma alternativa di moneta ai poteri capitalisti.
Biennale di Sydney 2024: panoramica dai principali spazi espositivi
Art Gallery of New South Wales
Nell’Art Gallery of New South Wales gli artisti indagano il tema delle emergenze globali, nonché il valore del costume e dell’ornamento, come potenti espressioni di sé e della comunità: sussurri poetici di persistenza culturale si trovano nelle parole di John Pule, che offrono una visione alternativa al colonialismo attraverso il mondo nativo di Niue. Queste parole di guarigione risuonano al piano di sotto, dove due figure dorate fluttuanti avvolte in intricate perline e conchiglie di ciprea accolgono i visitatori. Gli dei e le dee di Nádia Taquary parlano dell’eredità afro-brasiliana, trasmutando le tumultuose storie della tratta transatlantica degli schiavi, attraverso il simbolismo degli ornamenti tradizionali.
Storie oscure si sviluppano nelle stanze successive, che raccontano la distruzione causata da bombe, test nucleari e cicloni: l’artista indigeno Tiwi Pauletta Kerinauia dipinge il bombardamento di Darwin del 1942. La stessa città, annientata dal ciclone tre decenni dopo, è protagonista dell’opera di Rover Joolama Thomas.
Il centro dell’ultima sala è occupato da quattro abiti riccamente decorati delle Pacific Sisters, un collettivo di artiste delle Prime Nazioni provenienti da tutto il Pacifico che ci riportano all’ornamento come fonte di forza e identità culturale.
Artspace
Oltre a riconoscere i traumi superati, gli artisti della Biennale ci ricordano che questo mondo è ancora lontano dall’essere perfetto. Sana Shahmuradova Tanska parla, attraverso dipinti eterei, della violenza e della sofferenza in corso in Ucraina. Adebunmi Gbadebo, invece, ricorda il lavoro massacrante, ancora estraneo alla memoria collettiva, a cui gli indigeni furono ridotti nella piantagione di indaco e riso di True Blue Plantation, nella Carolina del Sud.
Museum of Contemporary Art Australia
Al Museum of Contemporary Art, colori e motivi emergono dall’elaborato totem di Anne Samat, che celebra l’amore che lega gli uomini. Utilizzando tecniche di tessitura del sud-est asiatico, l’artista malese trasforma oggetti di uso quotidiano per creare una scultura simbolica in cui il filo rappresenta metaforicamente l’amore che unisce tutta la vita. L’amore è invece indagato nella sua dimensione più tragica da Frank Moore: l’artista morto di HIV/AIDS, con Lullaby trasforma il suo letto di malato in un paesaggio stravagante popolato da una mandria di bufali. Dato che il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan non pronunciò mai la parola AIDS fino a quattro anni dall’inizio della crisi, Moore sospettava che la sua comunità, proprio come i bufali in via di estinzione, fosse stata lasciata estinguersi.
L’artista Serwah Attafuah, invece, torna a parlare di speranza attraverso gli strumenti digitali che le consentono di creare un mondo virtuale afrofuturistica che contrappone i resti coloniali alla speranza utopica. Attraverso una narrazione fantasiosa, Attafuah sfida i punti di vista convenzionali e incita alla riflessione, offrendo commenti sul superamento dei limiti storici. La sua miscela avanguardistica di riflessioni culturali ed estetica futuristica definisce questo lavoro come una conversazione tra eredità del passato e orizzonti speculativi, verso un futuro reinventato.