La ghiaietta insidiosa dell’Arsenale si solleva in piccole nubi candide, marchiando sandali e stivali, sneakers e mocassini: tutto quel ventaglio di possibilità tecnologiche e stilistiche sfoderate da curatori, direttori, giornalisti, artisti, per affrontare la Biennale d’Arte di Venezia. Mentre il contapassi registra l’impennata improvvisa dell’attività fisica, tra mostre collaterali ed eventi, vi proponiamo una selezione serrata dei progetti espositivi imperdibili dei Padiglioni nazionali dell’Arsenale (qui invece i sei Padiglioni da vedere ai Giardini).
Padiglione Arabia Saudita, Manal AlDowayan
Una cacofonia di pregiudizi. Voci di donne negate, limitate, distorte. È un grido di solidarietà, Shifting Sands: A Battle Song, l’installazione ad opera di Manal AlDowayan per l’Arabia Saudita. Unisce in un solo spazio le peculiarità sonore e geologiche del deserto alle voci delle donne, dà vita a un unico canto, a una nenia liberatoria, quasi un rituale contro i pregiudizi di cui proprio le donne – che lo intonano – sono vittime. Che cosa vediamo quindi, nel Padiglione Arabia Saudita curato da Jessica Cerasi e Maya El Khalil: grandi sculture a forma di petalo che richiamano la rosa del deserto, tutte decorate con testi serigrafati che parlano di donne, protagoniste assolute dello spazio. In sottofondo, l’instancabile canto.
«Spero che quest’opera d’arte sproni le donne a guardarsi dentro e a solidarizzare con la comunità femminile, per far sentire la loro voce e ritagliarsi la loro voce all’interno di questo nuovo capitolo della storia, gran parte del quale non è ancora stato scritto».
Padiglione Italia, Massimo Bartolini
A cura di Luca Cerizza, il Padiglione Italia è tappa obbligata, non solo per quel (in)sano campanilismo che emerge nelle manifestazioni di portata internazionale ma soprattutto perché è di notevole grazia la macchina evocativa messa a punto da Massimo Bartolini. Non è piaciuto al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, che durante la presentazione del 19 aprile ha dichiarato di preferire «Il figurativo», ma il padiglione è tutt’altro che inefficace. Un appagante senso di azzeramento si insinua tra i tubi innocenti svuotando i cuori e le menti appesantite dagli affanni. Si bisbiglia, non si chiacchiera quasi, si osserva, ci si riconcilia, si perdona la prima sala spoglia, a eccezione di una piccola statua in bronzo di un Pensive Bodhisattva all’estremità di una lunga canna d’organo, si assapora il giardino all’italiana della seconda, un intricato labirinto di tubi innocenti freddo solo apparentemente e che cela le composizioni sonore di Caterina Barbieri e Kali Malone. Al centro, una composta meraviglia, una vasca-fontana al cui interno respira un liquido a base di acqua e argilla che respira ritmicamente, elastico e viscoso (qui il nostro articolo completo).
Padiglione Albania, Iva Lulashi
Bisognerebbe fare l’amore per sopperire alle proprie necessità con la stessa leggerezza di bere un bicchiere d’acqua, ci dice questo padiglione citando la pensatrice femminista pre-rivoluzionaria Alexandra Kollontai. Love as a Glass of Water è il progetto del Padiglione Albania che vede per la prima volta l’ingresso in Biennale dell’artista Iva Lulashi, classe 1988, e del curatore Antonio Grulli. Una mostra che consacra la sua pittura, incentrata su pulsione e desiderio, fantasie erotiche e inquietudini. “E’ come la vita, allo stesso tempo eccitante e inquietante”, ci rivela l’artista durante la visita. Il suo immaginario viene espresso attraverso uno stile pittorico che mescola influenze albanesi e italiane, in particolari veneziane, la città in cui ha cominciato il suo percorso artistico. I dipinti rimandano a scene tratte da un immaginario pornografico, e anche quando l’atto sessuale non è esplicitamente ritratto, i personaggi che popolano le sue opere mantengono un’aura di erotismo, mistero, sfumature inafferrabili. Il lavoro di Lulashi, che negli ultimi anni ha conquistato l’attenzione del pubblico non solo italiano e albanese, in Biennale fa un salto in più: per realizzare Love as a Glass of Water, infatti, il team ha ricostruito la casa milanese dell’artista, che spesso usa per incontri, feste e mostre. Il suo lavoro acquisisce immediatamente un valore in più, chiarendo come l’ispirazione non possa esistere senza quel clima di domesticità, amicizia e collettività di cui si nutre.
Padiglione Lettonia, Amanda Ziemele
In O day and night, but this is wondrous strange… and therefore as a stranger give it welcome, di pittura ce n’è in abbondanza ma non si tratta di dipinti che esauriscono il loro campo d’azione tra i quattro lati della cornice. Le tele di Amanda Ziemele, artista classe 1990 chiamata a interpretare lo spazio del padiglione Lettonia con un progetto a cura di Adam Budak, espandono la loro superficie d’azione anche al retro, che ha valenza formale almeno quanto il fronte dipinto, come in un tuttotondo scultoreo. Così come ha enorme rilevanza estetica la distribuzione delle opere nella sala, quasi precipitate per la forza indolente della gravità. Esito di un moto appena trascorso, sembrano petali e nuvole sparsi casualmente ma solo in apparenza. Invece sono in dialogo, scandiscono ritmicamente lo spazio che si scopre, passo dopo passo, sempre più godibile, accattivante, giocoso.
Padiglione Libano, Mounira Al Solh
Mitologia e attualità si intrecciano come ordito e trama per dare forma a un tessuto narrativo scandito da una serie polifonica di opere, tra video, dipinti, disegni e sculture che totalizzano lo spazio del Padiglione Libano. Curato da Nada Ghandour, con Dance with her Myth Mounira Al Solh propone un racconto compiuto, ironico ma anche delicato, che affronta il tema del destino imposto e subito, a partire dal mito di Europa, principessa fenicia sedotta da Zeus sotto le sembianze di un toro bianco, così simile al vissuto di molte donne del medioriente. Proponendo una variazione del finale mitologico, l’artista nata nel 1978 a Beirut sposta l’equilibrio della narrazione con ariosa poesia, spingendo
il suo personaggio femminile, di cui ci consente di assumere lo sguardo, a compiere scelte autonome non prive di difficoltà. Qui, potere e desiderio di libertà, prevaricazione e auto determinismo si affrontano con dolcezza, sottolineando un evidentissima corrispondenza con l’impostazione evocativa del bel Padiglione Egitto firmato da Wael Shawky.
Padiglione Singapore, Robert Zhao Renhui
Si intitola Seing Forest l’installazione creata per il Padiglione Singapore, in Arsenale, è realizzata da Robert Zhao Renhui e curata da Haeju Kim. Il soggetto: un armadio sgretolato composte da scatole di legno impilato che sfida gli approcci coloniali della raccolta e della mera categorizzazione. All’interno di questa struttura, 12 schermi – intervallati da oggetti che fungono da traccia, da eco della storia umana – mostrano varie creature che visitano un abbeveratorio ricavato da un bidone abbandonato. Il significato: gli oggetti e le riprese, ormai profondamenti integrati tra loro, parlano delle trasformazioni nel tempo di un luogo e della rigenerazione senza fine della foresta. E delle connessioni, inevitabilmente profonde, tra uomo e natura.
«Ho dedicato quasi un decennio allo studio delle foreste secondarie, e per me sono fonte di continue scoperte, sorprese e significati. Questi ambienti esistono ai margini della città, spesso ignorati e trascurati, ma rappresentano spazi dove si avverte un senso di selvatico, un equilibrio di forze che non derivano dal controllo ma semplicemente dall’esserci. Qui si intrecciano ricche stratificazioni di passato e presente, natura e cultura, specie autoctone e invasive che creano ambienti radicalmente ospitali e liberi. Con Seeing Forest, spero di offrire uno spazio ricco e ambiguo in cui una foresta immaginaria prende vita attraverso immagini e suoni ipnotici, evocando un senso di comunità, meraviglia e mistero grazie alla miriade di esseri che la popolano».
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