Tra i Padiglioni nazionali più attesi della 60ma Biennale d’Arte di Venezia, che si svolgerà dal 20 aprile al 24 novembre 2024, mancava solamente quello degli Stati Uniti (oltre a quello dell’Italia) e l’annuncio dell’artista è di quelli che lasciano il segno. A rappresentare gli States in Laguna sarà infatti Jeffrey Gibson e questa volta si potrà parlare correttamente di Padiglione americano, in quanto si tratta della prima partecipazione di un artista indigeno, in 90 anni di lunga e gloriosa presenza in Laguna.
Gibson è membro della Mississippi Band of Choctaw Indians, una delle nazioni native americane, le cosiddette First Nations. Dopo secoli di violenze e soprusi, la tribù fu riconosciuta a livello federale nel 1945 ma la segregazione razziale e la privazione dei diritti civili sono durati fino alla fine del XX secolo. Oggi però la Mississippi Band of Choctaw Indians è diventata uno dei maggiori datori di lavoro dello Stato, all’inizio del XXI secolo gestivano 19 aziende e impiegavano 7.800 persone. Nel 2008, dopo quasi 200 anni, la tribù ha ripreso la gestione del sito sacro di Nanih Waiya, nel Mississippi.
Nato il 31 marzo 1972 a Colorado Springs, in Colorado, Jeffrey Gibson ha anche origini Cherokee e da bambino ha viaggiato molto con la famiglia seguendo il padre, che lavorava per il Dipartimento della Difesa, vivendo prima nella Carolina del Nord, quindi nel New Jersey, poi nella Germania occidentale e in Corea del Sud. Si è formato all’Art Institute di Chicago e nel 1998 ha conseguito il Master of Fine Arts presso il Royal College of Art, grazie a una borsa della Mississippi Band of Choctaw Indians. Gibson ha sempre sottolineato questa opportunità che gli fu offerta: «La mia comunità mi ha sostenuto. Il mio capo ha sentito che io andavo lì per diventare un artista forte, rendendolo più forte».
Riconosciuto come artista queer, Gibson ha incentrato la sua ricerca sulle questioni di identità, categorie e generi. Il suo lavoro è caratterizzato dall’uso di tecniche miste e materiali eterogenei, tra perline tipiche dell’artigianato dei nativi americani, sacchi da boxe, coperte e borchie di metallo. Le sue opere sono state avvicinate a quelle di Cy Twombly e di Chris Ofili, oltre che all’arte indigena australiana. Gibson è rappresentato da Roberts Projects a Los Angeles, Sikkema Jenkins & Co. a New York e Stephen Friedman Gallery a Londra.
L’annuncio del Padiglione degli Stati Uniti alla Biennale d’Arte di Venezia arriva in un momento importante della carriera di Gibson. Dopo aver esposto alla Toronto Biennial of Art, alla Whitney Biennial e a Desert X, il suo lavoro è ora in esposizione al CCS Bard’s Hessel Museum of Art di New York, in una mostra incentrata sulle pratiche performative e sull’estetica indigene. Gibson dovrebbe anche pubblicare il mese prossimo un libro intitolato “An Indigenous Present”, definito come un’indagine sull’arte indigena contemporanea.
A lavorare con Gibson al Padiglione, ci saranno anche la curatrice indipendente Abigail Winograd e Kathleen Ash-Milby, una curatrice di arte dei nativi americani del Portland Art Museum, membro della nazione Navajo. «Nel corso della sua carriera, Jeffrey ci ha sfidato a guardare il mondo in modo diverso attraverso il suo lavoro innovativo e vibrante», ha dichiarato Ash-Milby, che sarà la prima curatrice indigena a lavorare per un Padiglione degli Stati Uniti. «Il suo approccio inclusivo e collaborativo rappresenta un potente commento sull’influenza e sulla persistenza delle culture dei nativi americani negli Stati Uniti e nel mondo, rendendolo il rappresentante ideale per gli Stati Uniti in questo momento». A commissionare il progetto, il Portland Art Museum e il SITE Santa Fe.
Nel 2022, a rappresentare gli Stati Uniti fu Simone Leigh, la prima donna nera in assoluto. Nel 1932 invece già fu presentato a Venezia il lavoro di un artista indigeno, il pittore Hopi Fred Kabotie, che però partecipava a una mostra collettiva. È dal 1986, infatti, che il Padiglione degli Stati Uniti è stato dedicato unicamente a presentazione personali.
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