Tre eventi ben diversi ma molto legati hanno movimentato lo scorso week end a Bolzano. Nella città altoatesina, infatti, si è inaugurata la mostra “Tecnho”, a Museion, a cura del nuovo direttore Bart van der Heide, in collaborazione con il Festival di Arti Performative Transart, mentre alla Fondazione Antonio Dalle Nogare è in scena, fino al prossimo maggio, la prima retrospettiva italiana dedicata all’artista tedesca Charlotte Posenenske, “From B to E and More”, a cura di Vincenzo De Bellis.
Tre momenti espositivi decisamente “outside”: fuori dagli schemi la storia di Posenenske e dei suoi lavori minimalisti realizzati nell’arco di una carriera brevissima; vicini a un ritorno alla vita gli spettacoli di Transart, che ha fatto ballare tutti i prenotati dentro la ex centrale elettrica di Alperia, con DAY RAVE, installazione di luci e suoni ed effetti speciali di Isabel Lewis, che rianima l’antica “cattedrale” dell’energia, aperta per la prima volta al pubblico fino al 24 settembre. Ogni giorno, dalle 17 alle 19, si potrà passare di qui non solo per immergersi in un crescendo di suoni, ma anche per scatenarsi seguendo il DJ set (nonostante il sole ancora alto a battere alle finestre), come non succedeva ormai da tempo!
E, ovviamente, “Techno” a Museion, che offre uno spaccato di una “corrente” che – dalla metà degli anni ’80, quando viene sancita la sua nascita – di generazioni ormai ne ha attraversate quasi tre, rinnovandosi e reinventandosi seguendo l’evoluzione tecnologica, il ritmo dei mixer e di internet.
Divisa in tre sezioni principali, Libertà -Compressione-Esaurimento, “Techno” – ha spiegato il direttore – è una mostra che per la prima volta vuole investigare i lati culturali di questa sottocultura. In realtà , qualsiasi sub-culture, non è mai tale, perché legata con il proprio tempo e le sollecitazioni della società ; non è un caso, infatti, che la techno segua quella che è stata la storia del mercato globale, della nascita di internet, dell’automazione generale, compresa quella che ha riguardato il suono e la voce. Techno come metafora del lavoro martellante, a ritmi da esaurimento nervoso, compressi nella dimensione virtuale, fino ad una studiata libertà -decompressione.
Anche stavolta, come accade da sempre a Museion, lo sguardo alla realtà locale è attento e un’anticipazione alla mostra è la sezione dedicata a un Archivio Possibile della techno sul territorio dell’Alto Adige: attraverso i memorabilia provenienti dalle collezione di Djs, producer, appassionati, organizzatori e frequentatori, la techno locale è ripercorsa per immagini di flyer, inviti, adesivi, grafiche, che partono dal 1992 e arrivano ad oggi, guardando al futuro. Qui ci sono anche le immagini dei Rave Grounds, di Nicolò Degiorgis, i luoghi – tra cui l’Ex Alumix dove si svolse Manifesta 7 – che hanno contribuito come palcoscenico allo sviluppo della techno nella zona.
E poi Piero Martinello i suoi Rave kids fotografati nell’estasi, nella serie The waste land.
Al primo piano l’atmosfera acida, in verde, e i fantasmi di Sandra Mujinga che muovono nello spettatore l’idea di «Influenze non identificate in abiti che cercano di catturare l’esperienza del corpo, in relazione con le sonorità techno», spiega Bart van der Heide.
Ed è sempre il direttore ad insistere sul doppio registro della mostra per quanto riguarda i concetti di Online-Offline. Yuri Pattinson, con Sunset Provision, riflette sulla morte programmata dei prodotti tecnologici, che anziché venire direttamente ritirati dal mercato vengono prima di tutto “sabotati” internamente: la produzione di software che ne permetta gli aggiornamenti viene interrotta decretando così – in breve – la morte di un dispositivo, di un programma, di una funzione. Un modo per rispondere anche alla questione del neocolonialismo globale e dei sistemi digitali che lo alimentano.
Sun Tieu invece indaga lo spazio, quel famoso spazio che ci viene costantemente sottratto e ri-concesso, quello degli arrivi e delle partenze, quello dei vecchi non-luoghi, quello della globalizzazione – sempre identico a se stesso – quello della libertà vigilata e condizionata che aderisce ad un unico canone estetico e architettonico. E la domanda finale é: le architetture di liberazione offerte dal mondo globale, come appunto la techno, sono e sono state davvero gratuite per tutti o sostengono e hanno sostenuto inconsapevolmente diversi (quali? quanti?) sistemi di oppressione?
Una mostra importante, e senza dubbio un po’ generazionale (molti degli artisti presentati sono nati negli anni ’80), per gettare una luce in uno degli angoli creativi più al limite tra vecchio e nuovo millennio.
Charlotte Posenenske, a proposito di storie da ricordare, è un’artista rappresentata dalle gallerie Peter Freeman e Mehdi Chouakri, ma nonostante tutto é ancora sconosciuta al grande pubblico. Nata nel 1930 e scomparsa nell’85, è grazie al suo storico compagno se, nel corso degli ultimi trent’anni, la sua figura non è stata dimenticata. Pioniera della Minimal Art, esteticamente vicina alla forme di Donald Judd, Carl Andre e Sol Lewitt, Posenenske – alla Fondazione Dalle Nogare – lavorò praticamente nel corso di un solo anno, tra la fine del 1966 e l’inizio del 1968, quando decise che l’arte era del tutto inutile come mezzo per risolvere i problemi sociali, e si diede alla sociologia e all’aiuto delle organizzazioni sindacali.
Eppure la storia dell’artista è ben singolare: tra le sue disposizioni, rispetto alla promozione e alla produzione della sua opera, c’è stata la volontà di mantenere il valore di vendita identico al costo di produzione del singolo pezzo, inceppando così il meccanismo capitalistico del mercato dell’arte; Posenenske lascia il libero arbitrio rispetto alla composizione delle sue opere: le sue serie possono essere assemblate da chiunque, in qualsiasi modo, secondo qualsiasi canone.
E poi i colori: giallo, blu, nero, bianco e rosso, ovvero i primari, quelli inimitabili che non discendono dalla mescolanza di altri, e l’assenza e la somma generale di tutti. Anche questa una scelta che oltre ad essere stilistica appare politica. Eppure se da un lato c’è la democratizzazione totale dell’opera, la sua completa e perfetta riproducibilità , allo stesso tempo, a fronte di una risoluzione quasi generale della vita dell’opera, avviene la presa di coscienza della disfatta sociale dell’arte come strumento per “cambiare il mondo”. Una mostra che, sotto la luce di questo tempo, assume una serie di importanti valori su cui riflettere.
Bolzano, insomma, diventa la metafora del palcoscenico per mostrare i corpi vari ed eventuali che può assumere l’arte. In forma originale, curiosa, triplice.
Carmine e Celestina sono due "scugnizzi" che si imbarcano su una nave per l'America. La recensione del nuovo (e particolarmente…
Il collezionista Francesco Galvagno ci racconta come nasce e si sviluppa una raccolta d’arte, a margine di un’ampia mostra di…
La Galleria Alberta Pane, 193 Gallery, Spazio Penini e Galleria 10 & zero uno sono quattro delle voci che animano…
Si intitola “Lee and LEE” e avrĂ luogo a gennaio in New Bond Street, negli spazi londinesi della casa d’aste.…
Un'artista tanto delicata nei modi, quanto sicura del proprio modo d'intendere la pittura. Floss arriva a Genova in tutte le…
10 Corso Como continua il suo focus sui creativi dell'arte, del design e della moda con "Andrea Branzi. Civilizations without…