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Bronzini; LU+PA, Pietro Ruffo, GB Group – Sala 1
Arte contemporanea
Quanto costa il denaro? Domanda ambigua ma non rara, a cui è possibile fornire più risposte, tutte corrette ma non necessariamente esaustive. La più classica fa coincidere il costo del denaro con il tasso di interesse che si deve pagare quando si ottiene un prestito da una banca. In altre parole, volendo semplificare, è quel surplus di denaro che si corrisponde all’istituto bancario in cambio di un servizio. È questa una specificità del denaro, oggetto il cui “costo” coincide con quello immateriale di un servizio, non, come nella stragrande maggioranza delle categorie merceologiche, con quello reale dei materiali e dei processi generati per produrlo. Proseguendo sulla via delle facili deduzioni, si può asserire che questo succede perché il valore del materiale impiegato nel denaro (carta e metallo) è generalmente trascurabile rispetto al suo valore nominale. È infatti quest’ultimo, come si sa, a determinare la sua “preziosità” e con essa un altro costo, quello della vita. Questo ragionamento regge fino a quando si prendono in considerazione le banconote ma inizia a destare perplessità quando si trattano i tagli più piccoli. È un dato infatti che il rapporto tra valore nominale e valore materiale del denaro in ogni paese del mondo è inversamente proporzionale: le banconote, a cui corrispondono i valori più alti, sono fatte di carta, materiale più economico, mentre le monete, a cui notoriamente corrispondono i valori nominali più bassi, sono fatte di metallo, materiale più pregiato e costoso. Ed in questi gradini più bassi della scala monetaria che il rapporto tra valore nominale e costo del materiale vacilla. Ora, senza addentrarsi oltre nell’insidioso mondo degli economisti, si può stabilire che il valore nominale è il più importante, ma è affiancato dal valore materiale, decisamente più basso, ma non del tutto ininfluente, almeno nei tagli più piccoli. Nel fare comune, infatti, con la parola “spiccioli” siamo soliti indicare quantitativi di denaro di trascurabile importo, ma è proprio per loro che il rapporto tra valore materiale e valore nominale si fa più problematico. È il caso in particolare dei centesimi di euro di piccolo taglio (1, 2 e 5). Qui il valore del bronzo impiegato per coniarli supera il valore che essi assumono nell’economia reale (è stato calcolato che per produrre una moneta di un centesimo si spendono 4,5 centesimi, mentre per produrne una da due 5,2 centesimi).
Ai “bronzini” di uno e due centesimi, la cui produzione è cessata a partire dal primo gennaio 2018 proprio per questo inconveniente rapporto, è dedicata la mostra organizzata alla Sala 1 di Roma, in Piazza di Porta San Giovanni, da GB Group (fondato da Giordano Boetti Raganelli, Leonardo Gualco e Alessandro Giacobbe) che con sé ha invitato ad esporre Pietro Ruffo e il duo Lu.Pa (Lulù Nuti e Pamela Pintus). Un evento visitabile fino al 31 luglio, animato non da ironia o nostalgia, tantomeno da volontà di mero reimpiego, ma da una riflessione più profonda, che dal valore del denaro si allarga a quello dell’opera. Vexata questio quella del prezzo di un’opera d’arte con la quale il sistema fa quotidianamente i conti stabilendo più o meno attendibili parametri e coefficienti. “Il progetto – dichiarano gli organizzatori – nasce per dare un ‘nuovo’ fine alla produzione artistica, che sarà in grado di espandere la sua influenza non solo nel tessuto culturale e sociale, ma anche all’interno di altri campi dell’esistenza umana, come l’economia e la politica”.
Concepita come una fiera, con stand personalizzati per ciascun artista, la mostra raccoglie tre lavori realizzati utilizzando un determinato quantitativo (numerico e valoriale) di bronzini. Al puro valore nominale ha corrisposto il prezzo di vendita delle opere (quindi più che di una reale vendita si è trattato di un cambio), assegnate ai collezionisti con un procedimento vario, tra il cambio diretto alla prima prenotazione e il quiz con premio finale. Pietro Ruffo, stringendo in un lungo morsetto una lunga pila di monete da due centesimi, ha convertito il valore monetario in valore metrico. Il valore nominale di questa nuova unità di misura corrispondeva esattamente al prezzo di vendita del morsetto, lasciando che fosse il pubblico ad indovinarlo.
Anche GB Group ha scelto di puntare sulla relazione con il pubblico. Ha dato origine ad un quadro in espansione, un lavoro modulare che il collezionista può ampliare (anche grazie ad un tutorial fornito insieme all’opera) facendone aumentare il valore, secondo quella regola del mercato che vuole il valore dell’opera direttamente proporzionale alle sue dimensioni. Il duo Lu.Pa invece si è concentrato sul materiale, il rame. Le monete di due centesimi sono chiuse in blocchi di terracotta, nel poetico tentativo di sottrarre il metallo alle logiche economiche (accompagnate da sfruttamento e rovina ambientale) e riconsegnarlo alla Madre Terra. Nel percorso tre valori si incontrano: il costo del materiale, il pregio artistico dell’opera e il valore nominale delle monete. Laddove la discrepanza tra il costo di produzione e il valore nominale dei bronzini avrebbe potuto essepe compensata dal valore artistico, conferendo all’opera (e alle monete) un valore aggiunto, questo è stato negato dalla scelta degli artisti di scambiare le opere con una quantità di denaro pari al valore dei bronzini impiegato per realizzarle. È questa evidentemente una scelta (provocatoria?) che vuole indurre a riflettere sulle logiche del mercato. Un semplice cambio di denaro (i centesimi per le banconote) che annulla il pregio artistico in termini economici ma non in termini concettuali, anzi lo esalta facendone comprendere, in senso assoluto, l’ineluttabilità, a prescindere dalla considerazione che di esso assume il mercato. Negare in questo caso equivale ad affermare con forza.