-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Capogrossi, due anime in riconciliazione
Arte contemporanea
«Chi ha seguito in passato l’attività pittorica di Capogrossi e ne ricorda l’apporto essenziale alla prima formazione della Scuola Romana e ne ricorda in seguito le straordinarie capacità di tavolozza che han reso il suo nome illustre nel campo delle tendenze tonali, non potrà oggi vedere l’opera sua più recente e non considerarla inquietante. Ma, secondo il malcostume che impera, anziché cercare di intendere i motivi di simile inquietudine, non parlerà qualcuno di fronte a quelle opere di “tappeti”?»
Sono le parole che Corrado Cagli scrisse nel 1950 per introdurre la mostra con cui Giuseppe Capogrossi presentava per la prima volta, presso la Galleria del Secolo di Roma, i segni originari da lui trovati, poi volgarmente chiamati forchette o pettini, e che sarebbero stati declinati infinitamente lungo un’incredibile e ricchissima ricerca astratta.
Con la mostra attualmente in corso alla Galleria Nazionale di Roma, allestita in occasione dal cinquantenario della morte del pittore, la curatrice Francesca Romana Morelli ha deciso di affrontare il lavoro di Capogrossi non concentrandosi esclusivamente sulla prima parte della sua ricerca, quella del tonalismo e della Scuola Romana – con i compagni Cavalli e Cagli -, e nemmeno sulla seconda parte della sua produzione, quella segnica e astratta, ma comprendendo con un unico sguardo questa duplice natura, cercando in fondo, come sarebbe corretto, una riconciliazione.
Per questo motivo le opere figurative e quelle astratte sono accostate, non opposte le une alle altre, in un «silenzioso dialogo», come asserisce la curatrice, che sorprendentemente (o forse non sorprendentemente!) restituisce innumerevoli suggestioni di analogie e risonanze non solo formali ma anche emozionali. Come alluso da una sequenza di disegni esposti all’inizio della mostra, in realtà esiste un passaggio graduale dalla stagione figurativa a quella astratta, che fuga ogni nostro dubbio su una apparente scissione schizofrenica di Capogrossi artista, e svela invece una grande e profonda coerenza della sua ricerca. Le tele abitate da personaggi misteriosi, indecifrabili, quasi fossero officianti di riti misterici dimenticati, i caldi scorci urbani di Roma, e persino i nudi, sembrano allora, dalla prospettiva critica della mostra, nient’altro che una prefigurazione delle costruzioni dello spazio attraverso i segni, e per i segni, che l’artista avrebbe realizzato dopo il 1949, complice forse la grande, e grave, disillusione portata dalla seconda guerra mondiale.
È forte allora la tentazione di cercare presentimenti di quelle “forchette”, diventate poi così pop, quasi marchi di una nuova idea di Italian Style (come propose Paolo Bolpagni una decina di anni fa), in ogni brano di spazio rappresentato nelle opere figurative, in ogni particolare architettonico, in ogni posizione di mano o di corpo, in ogni pattern di vestito ritratto. Perchè, alla fine, lo diceva lui stesso che era tutta solo una questione di «esprimere direttamente il senso dello spazio che era dentro di me e che realizzavo compiendo gli atti di ogni giorno».