Nelle sale del Palazzo del Podestà di Città di Castello ha inaugurato a inizio agosto la mostra “Infinito Ritardo” di Carlo Rea, curata da Bruno Corà. Questa commistione eccellente fra arte e musica è anche l’evento d’apertura del Festival delle Nazioni, che nella sua 54° edizione ospita la Norvegia. Il programma del Festival prevede infatti, oltre i celebri concerti di musica da camera, un buon numero di eventi collaterali volti a unire musica e altre arti.
Carlo Rea, artista di spicco nel panorama contemporaneo, è scultore, pittore e musicista. Laureatosi al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma in violino, viola e composizione si avvicina negli anni giovanili anche alle arti visive, riuscendo con il suo estro a unire pittura e musica.
La mostra a Palazzo del Podestà è infatti il compimento di una ricerca artistica e sonora che vuole riflettere sull’idea di ritardo, concepito da Rea sia da un punto di vista musicale che come istante nel tempo capace di creare legami. Lo spettatore si ritrova immerso in una varietà di forme artistiche dove i diversi materiali e tecniche si susseguono in una danza armoniosa nella quale Rea cerca un contatto costante con la natura e con la terra. Vincenzo Trione ha definito l’arte di Rea come qualcosa che sembra “voler attingere a un passato lontano, ad un’origine insondabile”, ed è un mondo antico quello che lentamente emerge dalle sue opere.
Il percorso espositivo ideato da Corà vuole porre luce sulla complessità e diversità dell’arte di Rea, cercando uno sguardo nuovo in opere distinte nei materiali. Così prende forma una sorta di trittico scomposto nella prima sala: una pittura, una scultura e un’opera su carta si muovono insieme nello spazio attraverso similitudini di forme. Farsi del verde (2021) è la prima opera che compone la triade, si tratta di un dipinto di grandi dimensioni la cui superficie sconnessa e frastagliata ricorda Spoglia d’oro su spine d’acacia (2002) di Giuseppe Penone. Seguono Pagina (2017), un foglio di carta sollevata per piccoli pezzi, e Trogoli naviganti (2017/2019), sculture in ceramica all’interno di contenitori in legno. Legate da una plasticità di forme queste opere sembrano essere dotate di un’epidermide sulla quale Rea modella delle irregolarità. Lo stesso Corà ne esalta, nell’introduzione al catalogo, la superficie tattile soffermandosi sulla vibrazione che ne proviene; sono movimenti continui che, a suo dire, suggeriscono a ognuno di noi che “nessuna di queste manifestazioni, seppure trattenute in un ritardo, è destinata a permanere”.
Partitura visuale (2012) è l’opera che conclude il percorso espositivo nella prima sala. Si tratta di uno spartito musicale trasformato in dipinto dove il suono si fa immagine dialogando con il resto, una metamorfosi continua che trascende lo spazio e diventa tempo restituendo allo spettatore l’infinito ritardo che lega ogni opera di Rea. Nella sala adiacente avviene un cambio di rotta: è l’immagine a diventare suono attraverso dei diffusori in legno di olmo, anche questi opera di Rea, dai quali proviene una musica continua. Una frase se ne sta sopra queste casse di risonanza: “[…] Se è inscindibile il nostro legame con Natura, con Terra, l’infinito diventa un immenso e gioioso ritardo”.
Ed è nell’unione dell’individuo con ciò che gli sta intorno che Carlo Rea fonda la sua arte, giungendo a una comunione di linguaggi dove il continuo fluire della musica si fonde con il vibrare del colore, creando una melodia visiva che ci avvolge in toto.
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